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Via libera alla produzione della cannabis per il trattamento terapeutico di alcune patologie
Negli ultimi anni, e sopratutto in questo periodo, l’uso terapeutico dei derivati della cannabis sta vivendo un globale processo di rivalutazione.
In Italia, l’uso di cannabinoidi per questioni di salute (cura dei sintomi derivanti da patologie come SLA, sclerosi multipla e cancro) è diventato legale dal 1997 grazie a un decreto ministeriale che prevede la possibilità di importare medicinali dall’estero, quando non sono disponibili in Italia.
Le terapie a base di THC e omologhi, esclusivamente in forma sintetica, sono state riconosciute per la prima volta nel 2007, in un decreto del Ministro della salute Livia Turco. Nel 2013, poi, il Ministro Renato Balduzzi ha esteso il riconoscimento dalle forme sintetiche anche alla pianta e quindi ai prodotti farmaceutici contenenti estratti naturali.
Dal 2010 a oggi, parallelamente alla normativa nazionale, sono state introdotte alcune leggi regionali che prevedono l’erogazione di medicinali a base di cannabinoidi a carico delle ASL.
Era il 18 settembre 2014 quando una conferenza stampa dei Ministeri della Difesa e della Salute ha proclamato il via libera alla produzione italiana di cannabis terapeutica.
Il progetto è stato fin da subito affidato allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze e le piantine di partenza sono preparate all’interno del CREA di Rovigo, un ente di ricerca posto sotto la tutela del Ministero per le Politiche Agricole che si occupa dello studio della cannabis dal 1995. Il CREA, ente denominato Consiglio per la ricerca in agricoltura e analisi dell’economia agraria, è infatti titolare di tutte le varietà di canapa selezionate in Italia, dalle cultivar destinate all’uso agro-industriale a quelle ad alto contenuto di sostanze psicotrope per uso medico. Le prime varietà a basso contenuto di cannabinoidi stupefacenti vengono utilizzate nel settore tessile e alimentare, le seconde invece, ad alta concentrazione di THC, vengono impiegate per la realizzazione dei prodotti farmaceutici.
Per saperne di più, abbiamo intervistato il dott. Gianpaolo Grassi, responsabile della ricerca del CREA-CIN di Rovigo.
Quali sono le potenzialità terapeutiche della cannabis?
“Le funzioni fondamentali del nostro corpo, come l’appetito, lo stato d’animo, il dolore, sono regolate da un sistema denominato endocannabinoide. Autonomamente produciamo sostanze al momento del loro bisogno che si chiamano endocannabinoidi. La pianta di cannabis produce una famiglia di sostanze che sono denominate cannabinoidi ed ultimamente, per distinguerli da quelli endogeni, fitocannabinoidi perché replicano buona parte delle attività che gli endocannabinoidi esplicano quando interagiscono con i recettori di questo sistema. I recettori principali sono: due CB1 e CB2. Quando la persona è in salute, il sistema è in equilibrio e non ha necessità di mettere in circolazione concentrazioni elevate di endocannabinoidi. Quando interviene una patologia, il sistema si attiva e stimola le cellule presenti in quasi tutti i distretti del nostro corpo (cervello, sangue, ghiandole, ossa e così via) a produrre endocannabinoidi a più elevata concentrazione, ma talvolta queste non sono sufficienti e perciò apportando dall’esterno i fitocannabinoidi, siamo in grado di compensare il disequilibrio che si è venuto a creare. Certe patologie croniche (dolore neurologico, sclerosi multipla, SLA, malattie in cui sia compromesso il sistema immunitario) richiedono un costante apporto dall’esterno di fitocannabinoidi (derivati dalla cannabis) o cannabinoidi (come quelli di sintesi). Ciò che il nostro sistema sanitario prevede che si possa curare con la cannabis è riportato nel decreto del Ministero della salute del 9 novembre 2015.
Le frontiere più avanzate di applicazione della cannabis sono il trattamento preventivo e curativo dei tumori, la prevenzione delle malattie degenerative del cervello (Alzheimer, Parkinson, demenza senile) o l’obesità”.
Lei è il primo ricercatore, nonché unico studioso della canapa del centro di ricerca CREA di Rovigo, unico posto in Italia insieme allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, dove è possibile coltivare legalmente delle piante di canapa che superino il limite di THC dello 0,2 percento. Ci può spiegare cosa significa?
“La legge che in Italia regola le sostanze stupefacenti è la 309/90. In base a questo testo unico solo due sono le condizioni possibili legalmente per usare le sostanze stupefacenti: 1) per ricerca 2) per produzione. Salvo il caso della canapa industriale che tutti gli agricoltori possono liberamente coltivare in base all’art. 26 della nuova legge n°79/2014, ex 309/90, quella che ha principi attivi farmaceutici viene usata solo a seguito di autorizzazioni che solo il Ministero della salute può concedere. Le due possibili motivazioni che consentono di richiedere l’autorizzazione sono lo studio e la ricerca e questa possibilità è ammessa solo in caso di istituti pubblici di ricerca come il nostro, Università o CNR etc. Un privato non può ottenere l’autorizzazione per studio e ricerca con sostanze stupefacenti. L’autorizzazione a produrre sostanze stupefacenti, invece, è consentita alle aziende farmaceutiche pubbliche o private che devono produrre. Per ottenere e mantenere queste autorizzazioni che normalmente hanno durata biennale, servono particolari condizioni: sistemi di allarme, vigilanza, protezioni, nessun precedente penale e tanta pazienza”.
Prima che la sperimentazione con il THC diventasse legale avete sviluppato varietà ricche di CBD, una molecola che si è dimostrata molto efficace per il trattamento dell’epilessia, è così?
“Noi abbiamo iniziato a studiare la canapa industriale nel 1994 e quella ad uso medicinale nel 2002. La legge 309 è del 1990 appunto e perciò da allora si sarebbe potuta studiare la canapa, come il papavero da oppio o la datura etc. Certamente era più agevole e sicuro studiare la cannabis che produceva cannabinoidi non stupefacenti che sono tutte o quasi le 150 varianti di cannabinoidi. Di stupefacente c’è solo il THC e il CBN, ma quest’ultimo non è prodotto direttamente dalla pianta, derivando dalla degradazione del THC stesso. Queste semplificazioni ci sono servite perché siamo stati spinti dalle norme che ci costringevano a certe limitazioni a studiare più approfonditamente le varietà con cannabinoidi non psicotropi come appunto il cannabidiolo (CBD), oppure il cannabigerolo (CBG), la cannabidivirina (CBDV), la tetraidrocannabivirina (THCV) e così altri che ancora si stanno studiando dal punto di vista del loro potenziale biologico e terapeutico. Queste varietà ora sono meno comuni e perciò più ambite e ricercate anche dai medici perché li possono utilizzare più liberamente non essendo legati alle norme sulle sostanze stupefacenti come quella che può determinare una pena sino a 20 anni di prigione, se la si infrange”.
La scienza fa progressi e grazie ad essa oggi c’è una maggiore tutela della nostra salute. Quanto è importante l’uso di cannabinoidi per il trattamento sintomatologico di determinate patologie?
“Io ho una visione meno medicale e più umanistica. I primi posti in cui vorrei che la cannabis entrasse senza limitazioni sono le case di riposo. Negli ultimi anni di vita le persone dovrebbero essere lasciate libere di poter vivere nel migliore dei modi e senza particolari limitazioni. Una delle attività più collaudate e riconosciute della cannabis è quella di favorire il sonno (se usata bene) e di far apprezzare di più la vita oltre a togliere anche una parte dei dolori cronici. Consideri quanto bene farebbe agli anziani evitare di intossicarsi con benzodiazepine e tornare liberi attraverso l’uso di sostanze naturali di tipo fitoterapico. Non perché lo dico io, ma perché pubblicato e accettato da una rivista più che autorevole come Lancet. Se si va a considerare la dipendenza dei farmaci a base di benzodiazepine, la pericolosità è ben superiore a quella della cannabis: 1,8 contro 0,8”.
Ancora difficoltà e pregiudizi nei confronti della cannabis in campo medico. Quanto tempo ci vorrà affinché alcune barriere vengano meno?
“Devono iniziare ad uscire studenti formati da professori aperti e competenti su questi argomenti. Al momento sono ben pochi i “maestri” (professori) con una sufficiente preparazione. Credo di non sbagliare di molto affermando che solo il 10% dei professori possono dirsi sufficientemente preparati e disponibili a studiare e sperimentare all’università questa pianta e la classe di sostanze che appartengono ai cannabinoidi. Senza i medici e ricercatori preparati non si procederà molto veloci e perciò credo ci vorranno almeno altri 20 anni”.