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Pregare aiuta a vivere più a lungo. Lo conferma la scienza
Mangia. Prega. Ama. Stando a un’antica credenza asiatica l’uomo per essere felice e per vivere dunque i propri anni in armonia con se stesso e con le forze che muovono il mondo deve poter mangiare bene, amare qualcuno con fedeltà e infine credere in Qualcuno a cui affidarsi. In effetti non ha molta importanza chi si prega, ma frequentare i luoghi di culto aiuta a vivere più a lungo e decisamente meglio. La tradizione popolare in questo senso incontra la scienza che ha dimostrato come le persone che partecipano a funzioni religiose sono più protette dal rischio di morte per qualsiasi causa. Continua pertanto quell’annoso dialogo tra teologi e scienziati.
Sempre di più nei tempi recenti la preghiera è stata presentata come una medicina, una sorta di balsamo del corpo e dello spirito. La scienza così ha potuto dimostrate che la religione può influire positivamente sullo stato di salute delle persone. Fra gli effetti procurati dalla preghiera c’è l’aumento dei livelli di serotonina nel sangue, il trasmettitore responsabile nella regolamentazione di un’ampia gamma di funzioni cerebrali e correlato ai disturbi dell’umore. Maggiori valori aiutano a gestire meglio la propria emotività, contrastando ansia, depressione, insonnia, impulsività e stress, ma anche ad assicurare una migliore salute in generale, lottando contro aterosclerosi, colesterolo, diabete e invecchiamento.
Uno dei primi studiosi che si è occupato in questi termini della pratica religiosa è stato l’americano Herbert Benson, cardiologo dell’Università di Harvard, che, sin dagli anni Settanta del ‘900 ha ipotizzato per la preghiera la stessa azione biochimica prodotta dal rilassamento, capace di abbassare la pressione sanguigna, ridurre il ritmo cardiaco e allentare la tensione muscolare. partite dal “g Tum-mo”, una pratica yoga che – grazie a una speciale respirazione meditativa – consente ai monaci buddisti di resistere alle temperature estreme dell’Himalaya e addirittura asciugare lenzuola bagnate avvolte intorno ai corpi nudi, grazie alla loro misteriosa capacità di sviluppare un elevato calore interno.
“La meraviglia delle ricerche internazionali infatti è quella di aver mostrato come gli effetti della preghiera vadano al di là della singola religione o del fatto di credere o meno in Dio”, ha spiegato a Famiglia Cristiana la dottoressa Monica Urru, medico, psicoterapeuta, specializzata nel trattamento degli psicotraumi in adulti e adolescenti, che ha trattato il tema nell’ambito del VI Congresso nazionale Simben (Società italiana di medicina del benessere). “Non a caso, a partire dal 1992, il neuroscienziato Andrew Newberg ha provato a verificare che cosa accadesse nel cervello di persone appartenenti a fedi diverse, dai monaci tibetani alle monache francescane, chiedendo loro di utilizzare le rispettive meditazioni o forme di preghiera durante l’esperimento”. Come dunque è noto condizioni sociali ed economiche hanno un impatto sulla salute. Per capire se anche le attività religiose potessero essere un valido predittore di mortalità, i ricercatori della Emory Rollins School of Public Health hanno reclutato 18.370 statunitensi ultracinquantenni.
Il capitolo 18 del Vangelo di Luca comincia così: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi». I partecipanti allo studio sono stati intervistati nel 2004 e seguiti fino al 2014. Dallo studio è risultato che chi aveva preso parte a celebrazioni o a incontri religiosi presentava un rischio di mortalità inferiore del 40% rispetto a chi non aveva mai partecipato. I frequentatori più assidui avevano meno probabilità di fumare o bere alcolici, erano più propensi a effettuare screening sanitari e a svolgere attività motoria. Cosa fondamentale è che non c’erano differenze per il tipo di religione seguita. I dati sono stati ricavati da fattori ‘confondenti’, in quanto anch’essi attribuiti a un miglior livello di salute, come il reddito elevato e il genere femminile.