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Caso Ilva. L’acciaieria italiana che preoccupa l’Europa
L’esplosione nell’impianto di distribuzione del gas a Baumgarten an der March, in Austria, avvenuta il 12 dicembre a una cinquantina di chilometri a nord-est di Vienna, a molti ha ricordato il tragico incidente che il 23 gennaio 2016 colpì l’Ilva di Taranto con quattro operai rimasti gravemente feriti. Chiaramente le dinamiche non sono da paragonare, essendo due episodi che, se per un verso si ravvicinano, per l’altro sono tra loro estranei per la matrice. Tuttavia, il caso austriaco ha riacceso in Europa i riflettori sulla grigia realtà dello stabilimento industriale tarantino, che si occupa storicamente della trasformazione di acciaio.
La più grande acciaieria d’Europa venne fondata nel 1961. Si tratta di un impianto siderurgico a ciclo integrale, dove avvengono tutti i passaggi che dal minerale di ferro creano l’acciaio. Il fulcro della produzione sono i cinque altoforni, impossibile non vederli svettanti nel cielo, dove viene prodotta la ghisa. Ciascuno è alto più di 40 metri e ha un diametro tra 10 e i 15 metri: al momento quattro altoforni su cinque sono attivi.
L’ILVA di Taranto è parte del Gruppo Riva, che si configura come il decimo produttore mondiale di acciaio. Nel 2011 l’Italia si posizionava all’11esimo posto della classifica dei paesi che producono acciaio, con 28 milioni di tonnellate prodotte annualmente. L’ILVA di Taranto produce da sola circa 9 milioni di tonnellate l’anno e il Gruppo Riva nel suo complesso ne produce più di 17. Ma come si rapporta alla salute degli operai e, più in generale, alla salvaguardia dell’ambiente di cui si è reso altissimo portavoce il presidente francese Emmanuel Macron sulla base degli Accordi di Parigi siglati nel 2015? Proprio Bruxelles ha puntato un faro sull’Italia: sale infatti la preoccupazione per gli sviluppi del caso Ilva dopo il ricorso al Tar della Regione Puglia, che contesta sia l’assegnazione alla cordata ArcelorMittal/Marcegaglia sia, soprattutto, il piano di risanamento ambientale.
A tal riguardo mercoledì 13 dicembre a Taranto, presso la Sala Resta del centro congressi Subfor,si è tenuta una tavola rotonda della Camera del lavoro dal titolo “Ilva: una contrattazione per la tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro”. È stato un appuntamento importante poiché ha permesso alle parti di confrontarsi con la cittadinanza e le istituzioni territoriali su una partita strategica per il Paese, ed è stata poi un’occasione per discutere delle proposte da avanzare nel corso della trattativa al ministero dello Sviluppo economico.
“Sono ormai 17 anni che lavoro in ILVA a Taranto con la mansione di operaio manutentore elettrico. Un lavoro che mi soddisfa e che mi permette di provvedere al sostentamento della mia bambina di 3 anni. Mi ritenevo fortunato fino all’inizio di questo anno quando, a Gennaio, l’azienda ha diffuso la notizia della presenza di circa 4000 tonnellate d’amianto al suo interno. Una vera doccia fredda! Mi sono chiesto: “Come reagiremo a questa nuova situazione?” Abbiamo lavorato per anni senza i più elementari dispositivi di prevenzione e protezione come guanti e mascherine. Siamo quindi tutti potenzialmente a rischio? C’era qualcuno che doveva e/o poteva prevenire tutto questo? Se affermativo perché non è stato fatto?”. Sono tutte domande che adesso continuano a girarmi per la testa senza sapere se avrò mai una risposta”. È il racconto di Pasquale Maggi, pubblicato sul sito dell’Ona. L’altissimo livello di tossicità delle emissioni dello stabilimento Ilva è stato ampiamente dimostrato negli ultimi due decenni. A tal proposito, una delle più recenti perizie mediche, ha stabilito che tra il 2004 e il 2010 le emissioni dì polveri sottili avrebbero causato nella zona di Taranto una media di 83 morti l’anno, e di ben 648 ricoveri per cause cardiorespiratorie. A rischio non sono solo gli operai, ma anche i residenti del quartiere Tamburi, uno di quelli più vicini alla fabbrica, assieme al San Paolo. Nel 2012 sono stati stanziati 110 milioni per la bonifica delle zone avvelenate dall’Ilva: solo il 23 luglio 2015 sono poi stati avviati i lavori di bonifica di una parte del rione Tamburi, con l’avvio del progetto di riqualificazione ambientale “A Tamburi battenti”, finanziato con 210.000 euro in tre anni dalla Fondazione “Con il Sud” e 55.000 euro con i fondi 8xmille tramite la Caritas diocesana, con il coinvolgimento di numerose associazioni locali.