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Una vittoria per “The Danish girl”. La transessualità non è più malattia mentale
La transessualità non è più intesa per essere una malattia mentale. A definirlo è l’Oms, l’Organismo mondiale della sanità. Per molti anni il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale di Classificazione dei Disturbi Mentali, redatto dall’associazione americana degli psichiatri) e l’International Classification of Diseases (a cura dell’Organizzazione mondiale della sanità, appunto), hanno sostenuto che la persona transessuale soffre del disturbo dell’identità di genere (DIG). “Questo senso di distonia e disforia nei confronti del proprio sesso di nascita – si legge negli atti sopracitati – può svilupparsi già nei primi anni di vita, durante l’adolescenza o, più raramente, in età adulta”.
Negli scorsi giorni l’incongruenza di genere è stata rimossa dalla categoria dei disordini mentali dell’International Classification of Diseases per essere inserita in un nuovo capitolo delle ‘condizioni di salute sessuale’. Per l’Oms dunque “è ormai chiaro che non si tratti di una malattia mentale e classificarla come tale può causare una enorme stigmatizzazione per le persone transgender”. La decisione presa dall’organismo mondiale è stata accolta positivamente dalle organizzazioni che da decenni si battono per il riconoscimento dei diritti dei transessuali: è “l’equivalente di aver tolto l’omosessualità dai disordini psichiatrici, è una pietra miliare”, ha commentato Sally Goldner dell’australiana TransGender Victoria. Un passo in avanti che aiuterà a combattere lo stigma e la transfobia, ha aggiunto, sottolineando che “non si può più dire che è un disordine mentale: c’è l’Oms che dice di no, che è solo parte della diversità umana e deve essere trattata con rispetto”.
“Una grande notizia, importantissima. Un giorno da celebrare”. Questo il commento via Twitter di Ivan Scalfarotto, ex sottosegretario per lo Sviluppo economico, attivista per i diritti Lgbt. L’Oms nel 1990 prese una decisione simile sull’omosessualità, che si celebra ogni anno il 17 maggio nella Giornata Internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia.
Il termine “transessuale” nasce nel 1949 con il dottor David Cauldwell, anche se è stato sdoganato a seguito della pubblicazione del libro “The transsexual phenomenon” (Il fenomeno transessuale) nel 1966 a cura di Harry Benjamin, presto diventato testo di studio universitario, in quanto è il primo libro che indaga sulla transessualità con un approccio anche nosografico, affermando che si tratta dell’unica patologia classificata come psichiatrica a non essere curata psichiatricamente. Lo psichiatra infatti non “guarisce” la persona transessuale facendola nuovamente sentire a proprio agio con il suo sesso di origine, bensì avviando la persona a cui è diagnosticato il “disturbo dell’identità di genere” alle terapie endocrinologiche e/o chirurgiche per iniziare il percorso di transizione.
Tale discrepanza è da inquadrarsi nel fatto che per molti decenni fra la fine del 1800 e i primi venti anni del 1900 la persona transessuale veniva effettivamente sottoposta a tentativi di “guarigione”, ovvero di scomparsa del “disturbo”, sia attraverso la psicoterapia, sia attraverso la somministrazione di ormoni del proprio sesso genetico. Il percorso clinico è ben inquadrato nel film diretto da Tom Hooper nel 2015 “The Danish girl” liberamente ispirato alle vite dei pittori danesi Lili Elbe e Gerda Wegener. Nel film il regista si sofferma principalmente sul cambiamento dell’artista che pur essendo nato nel corpo di un uomo sente di essere una donna. Nel suo caso furono del tutto fallimentari i tentativi di cura che in buona parte determinarono un numero elevatissimo di suicidi fra le persone transessuali che li subivano. Soltanto intorno al 1960 si iniziò a pensare che l’unica “guarigione” della persona transessuale si potesse ottenere adeguando il corpo alla psiche e non viceversa.
Il movimento transessuale mondiale ha sempre rifiutato l’inquadramento psichiatrico della propria condizione, pur essendo consapevole del fatto che la propria condizione richiede l’intervento della medicina per trasformare la “disforia” in “euforia” o comunque in una stabilizzazione accettabile della qualità di vita.