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Una malattia dagli esiti drammatici: quando i medici del Fatebenefratelli inventarono il Morbo k. Intervista allo storico Pierluigi Guiducci
Si possono inventare le malattie? La storia ci suggerisce di sì e uno dei casi più noti riguarda l’arrivo del Morbo K a Roma nel lungo inverno 1943-1944, quando gli ebrei romani erano perseguitati, come accadeva in tutta Europa ormai dagli anni ’30, dai soldati di Hitler. Il Morbo K viene inventato di sana pianta dai medici italiani Adriano Ossicini (scomparso nel febbraio 2019) e Giovanni Borromeo, al fine di salvare la vita a concittadini di religione ebraica e a polacchi che altrimenti sarebbero stati deportati nei campi di concentramento della Polonia e della Germania. “Una malattia dagli esiti drammatici”. Inventato sul momento, così il virus viene definito dal professore Pierluigi Guiducci, storico e già docente di Storia della Chiesa presso il Centro diocesano di teologia per i laici “Ecclesia Mater” della Pontificia Università del Laterano, che in occasione della Giornata della Memoria ripercorre sulle nostre pagine una delle storie solidali che ha inserito a buon diritto l’Italia tra i “Giusti” che si schierarono dalla parte dei perseguitati. Una catena solidale, che vede medicina e scienza protagoniste, messa in piedi all’Ospedale Fatabenefratelli di Roma da medici eroi che misero a repentaglio la propria vita salvandone delle altre.
Nel corso del lungo inverno 1943-1944 tante furono le Istituzioni che hanno garantito un riparo agli ebrei perseguitati. In che modo prese avvio quella che è stata definita “l’opera dei giusti”?
L’intervento a favore degli ebrei perseguitati risale all’epoca delle leggi razziali. Già in quella fase ci furono delle persone che tentarono di sgonfiare dall’interno la normativa, mentre non mancarono le voci critiche che ritenevano non scientifica la teoria della razza. Nel 1943 la situazione precipitò ulteriormente perché la “Soluzione finale” (decisa a Berlino e non a Wannsee, ove si discusse solo della sua applicazione) provocò delle ‘accelerate’, con ufficiali nazisti inviati da Berlino per garantire l’esatta applicazione degli ordini. In tale contesto, sia all’interno del Vaticano che nelle organizzazioni ecclesiali, si erano mosse molte persone a cui venne affidato il compito di proteggere gli ebrei (e altri perseguitati). Questi cattolici, a loro volta, interagirono con le organizzazioni ebraiche di assistenza agli ebrei e con gruppi (es. partigiani, professori universitari, dipendenti del Ministero dell’Interno, tipografi) che si erano costituiti per creare ambienti protettivi. La rete nasce in questo modo. Nell’ambito di molteplici contatti emergono figure notevoli che verranno poi dichiarate ‘Giusti tra le Nazioni’. Tali soggetti rimangono comunque un nucleo parziale. Un elevato numero di cattolici, infatti (inclusa mia madre), non volle raccontare poi le azioni umanitarie svolte per seguire una regola della carità (la mano destra non deve sapere quello che fa la sinistra). Sul piano storico, diverse ricerche hanno incontrato delle difficoltà, perché alcuni studiosi non hanno tenuto conto del fatto che esisteva un linguaggio di copertura. La ‘parola’ ebreo era stata cancellata per legge. Chi la usava commetteva un reato. Si sostituì quindi con il termine ‘non ariano’. Ma anche in questo caso vennero emanate direttive per cancellarlo. Si scelse così il termine profugo (o sfollato). Nei discorsi pontifici, l’insistenza sul termine carità si tradusse in un messaggio in codice (sostegno ai perseguitati). Ne sono prova le direttive ai parrochi di Roma, attraverso il cardinale vicario, che traducevano in orientamenti operativi le volontà del Papa.
Tra le tante storie di solidarietà spicca quella del Fatebenefratelli con la creazione di un reparto per soli ebrei. Cosa accadde?
L’ospedale dei Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina a Roma, si trovò in una situazione particolare. Aveva davanti la Sinagoga con l’area dell’antico Ghetto. E, alle spalle, il quartiere di Trastevere popolato anche da famiglie ebree. Quando iniziarono le persecuzioni anti-ebraiche, il primario di medicina, il dottor Giovanni Borromeo, cominciò ad accogliere ebrei (si trattò di due medici e di qualche membro della Comunità ebraica). Poi la situazione divenne drammatica nel 1943. Nelle ore del rastrellamento del 16 ottobre, molti ebrei si rifugiarono negli spazi dell’ospedale. Altri ebrei provenivano dal vicino Ospedale Israelitico. Dopo il 16 ottobre si presentarono altri ebrei. In tutto furono una sessantina (con periodi di permanenza molto diversi tra loro). Gli ebrei nascosti in ospedale vennero distribuiti in più punti dell’edificio (per non dare troppo nell’occhio). Purtroppo, però, dopo il 16 ottobre scattò una prima irruzione nazi-fascista. Fu in quella occasione che il primario Borromeo dette ordine di radunare gli ebrei in una zona della lunga Sala Assunta (la parte vicina all’altare). Una grande vetrata separava questa zona (ove si celebrava la messa) dall’altra parte (più lunga e con diversi letti allineati in doppia linea). Si trattò di un “reparto” improvvisato.
Una delle più interessanti “invenzioni” dei medici del nosocomio romano è stata senza dubbio la creazione del Morbo K. In che modo riuscirono a persuadere i tedeschi?
Si dovette in qualche modo spiegare ai tedeschi perché esisteva un gruppo di malati che non era assolutamente avvicinabile (gli ebrei perseguitati). Per questo motivo il primario Borromeo, che per fortuna parlava benissimo in tedesco, si ‘inventò’ una malattia dagli esiti drammatici. Colpiva il sistema neurologico, rovinava per sempre la vita del paziente, e – soprattutto – era contagiosissima. Davanti alla puntuale descrizione di questo morbo, il medico tedesco che doveva esaminare i pazienti, preferì non andare oltre. I militari si ritirarono. Per ricordare quell’episodio e per indicare i nuovi ebrei in arrivo il giovane medico ebreo dottor Vittorio Emanuele Sacerdoti coniò il termine “morbo di K”. L’espressione dava adito a una doppia lettura. O una lettura scientifica. O una lettura ‘concreta’ (morbo di Kesserling, o di Kappler).
Questo piano di protezione ottenne i risultati auspicati?
Si riuscì a salvare una sessantina di ebrei con alterne vicende. Alcuni di loro si rifugiarono nel nosocomio ma poi desiderarono uscire per avere notizie dei propri cari e per controllare la propria abitazione. Altri ebrei furono di passaggio. Si cercò infatti di trovare dei collegati con istituti religiosi della zona. Tale orientamento si spiega con il fatto che l’ospedale era aperto a tutti, quindi anche a possibili spie e a delatori. Furono pochi gli ebrei che rimasero per un periodo di tempo prolungato. Nel frattempo, si attivarono delle difese dall’esterno. Il maresciallo Gennaro Lucignano, ad esempio, in qualità di comandante del gruppo di poliziotti presenti sull’Isola, garantì ai tedeschi sul proprio onore che nella zona non c’erano assolutamente ebrei. In realtà un piccolo gruppo era pure nascosto nella torre medievale dell’Isola.
Medicina e persecuzione razziale: una relazione che spesso riemerge dalle pagine della storia. Da storico, come spiega questo legame?
Già prima delle persecuzioni antiebraiche, diversi medici in Europa (Regno Unito, Francia, Svezia, Finlandia, Italia) e in USA, avevano cominciato ad applicare delle tecniche in materia di eugenetica. Si voleva cioè cercare di studiare le razze con il fine di annullare imperfezioni e tare ereditarie. Lungo questa strada non furono infrequenti i casi di pazienti morti a seguito dei trattamenti subìti. In seguito, anche nella Germania nazista si cominciò a ragionare in termini di razza pura. Tale politica comportò l’eliminazione di soggetti segnati da grave disabilità. A seguito delle proteste del vescovo August von Galen (1941) e degli abitanti della Vestfalia, i centri di ricerche si spostarono nei campi di sterminio all’Est. Qui, i programmi vennero ampliati con nuovi esperimenti riguardanti, ad esempio, il congelamento e il raffreddamento prolungato o la decompressione per il salvataggio da grande altezza. Anche in Giappone vennero svolti moltissimi esperimenti riguardanti la guerra biologica. Tali vicende si spiegano con l’assoluto asservimento di taluni scienziati ai regimi del tempo, e alla volontà di utilizzare soggetti privi di difesa per esami che erano liberi da qualunque regola etica. Sempre sul piano storico, si deve registrare comunque lo sforzo di ricerca medica per bloccare le infezioni causate da eventi bellici. Si aprì così la strada alla penicillina, che cominciò ad essere distribuita anche ai civili con dosi industriali subito dopo la fine del II conflitto mondiale.