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Popolazione mondiale in calo nel 2100, urgente una revisione delle politiche sanitarie. La parola a Daniele Garroni di “Azione contro la fame”
Un giorno fortemente voluto dalle Nazioni Unite e che per sua natura non esclude nessuno senza innalzare muri o chiudere ponti. Una giornata di fatto dai toni democratici che annualmente esorta i leader mondiali a riflettere su quelle che sono le problematiche più urgenti da affrontare a livello globale. Mai come quest’anno la Giornata mondiale della popolazione (World population day), che si celebra l’11 luglio, acquisisce un significato storico e sociale. Una giornata per tutti. Un momento per soffermarsi su quanto tutti i Paesi del globo abbiano dovuto affrontare in un inizio d’anno certamente straordinario. Inaugurato dal consiglio direttivo del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite nel 1989, questo giorno particolare potrebbe essere considerato il secondo compleanno di ogni uomo e di ciascuna donna che vivono sulla Terra. L’idea di istituire la celebrazione infatti fu ispirata dall’interessamento pubblico sollevato dalla “giornata dei 5 miliardi” caduta nel giorno 11 luglio 1987, data in cui approssimativamente la popolazione mondiale raggiunse la quota di 5 miliardi. L’obbiettivo è proprio quello di aumentare la consapevolezza riguardo a tematiche legate alla demografia come l’importanza del controllo familiare sulle nascite, la parità tra i sessi, la povertà, la salute durante la maternità e i diritti umani. Sono proprio le politiche sanitarie uno dei tasselli più urgenti e da affrontare congiuntamente. La pensa in questo modo Simone Garroni, Direttore generale di “Azione contro la fame”, organizzazione umanitaria internazionale impegnata a eliminare la fame nel mondo e riconosciuta leader nella lotta contro la malnutrizione.
Direttore Garroni, quest’anno la Giornata mondiale della popolazione ci fornisce diversi spunti soprattutto in considerazione dell’attuale contesto emergenziale, dal punto di vista sanitario. Quanto incidono le politiche sanitarie sulla salute di un popolo?
Incidono molto e, nei prossimi anni, incideranno sempre di più. Lo ha confermato l’emergenza Covid-19 che, di fatto, ha proiettato i fari dell’opinione pubblica sul tema della tenuta delle infrastrutture sanitarie a livello nazionale. In questi mesi di crisi, noi che operiamo nelle aree più vulnerabili al mondo, abbiamo però continuato a porci una domanda: se Paesi come Italia, Spagna e Stati Uniti non erano pronti a gestire l’impatto del virus, cosa può accadere, adesso, in aree densamente popolate, come un campo profughi, o in zone dove sono in corso guerre, crisi economiche e altre epidemie? Faccio qualche esempio: in l’Africa, nei Paesi a basso e medio reddito, il 38% della popolazione non ha, oggi, accesso all’acqua potabile e il 35% non dispone di sapone e di acqua per lavarsi le mani. Ancora: in Siria solo la metà degli ospedali continua a operare, ma sono sprovvisti di forniture mediche sufficienti, e meno di 500 sono le unità di terapia intensiva dotate di ventilatori all’interno dei nosocomi pubblici.
Come affrontare questa criticità dunque?
È chiaro che l’impossibilità di adottare le principali regole di base per evitare il contagio e la debolezza del comparto sanitario costituiscono, oggi, una spada di Damocle che pende sulle teste di milioni di persone. Le cause di queste criticità sono le stesse che determinano gli attuali livelli di fame: conflitti, cambiamenti climatici, povertà che logorano il tessuto sociale di qualunque comunità, oltre a compromettere il ricorso ai servizi essenziali. La protezione del personale sanitario e il rafforzamento della capacità dei sistemi sanitari sono, dunque, cruciali ma, alla luce degli effetti indiretti del coronavirus, occorre anche una risposta che tenga anche conto delle conseguenze socioeconomiche legate alle restrizioni messe in atto per contenere la diffusione del Covid.
“Azione contro la Fame” ha manifestato particolare preoccupazione per il costante aumento del numero di persone affamate: un dato inquietante che il Covid-19 aggrava ulteriormente. Qual è la relazione e in che modo si evolverà la situazione?
Il rischio, come ha evidenziato l’ultimo rapporto della Fao (SOFI 2020) ma anche Azione contro la Fame nelle scorse settimane, è che il numero di persone affamate nel mondo aumenti tanto da mettere in dubbio il raggiungimento dell’obiettivo ‘Fame Zero’ che la comunità internazionale si è posta per il 2030, attraverso i suoi Obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli effetti del virus rischiano infatti di trascinare verso la fame fino a 132 milioni di persone quest’anno. Il perché è presto detto: l’emergenza non è solo determinata dalla fragilità dei sistemi sanitari, ma riguarda anche la compresenza di una grave pandemia con le crisi alimentari preesistenti. Criticità che saranno, inevitabilmente, aggravate dal numero di adulti e genitori contagiati, che non potranno prendersi cura dei propri figli, o dalle restrizioni promosse dai governi per limitare la diffusione del virus, che avranno un impatto negativo su economie già deboli e sull’accesso ai beni di prima necessità. Tali restrizioni, del resto, sospenderanno gli spostamenti legati alla pastorizia, uno dei principali settori che garantiscono la sussistenza in queste regioni, incrementando il numero dei pascoli impoveriti e, dunque, la fame.
Stando all’ultimo Rapporto di revisione biennale sulle Stime della Popolazione Mondiale presentato lo scorso anno dal Dipartimento degli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite (UN-DESA) sulla Terra convivono indicativamente 7,7 miliardi di individui. Si stima che al 2050 saranno 9,7 miliardi, per raggiungere i 10,9 miliardi nel 2100, quando la crescita si fermerà e l’Europa sarà quasi del tutto scomparsa. Come interpreta questo scenario?
Siamo di fronte a una fotografia globale più che realistica. Entro il 2100 la linea demografica subirà uno storico calo, a seguito un’impennata che la porterà a circa 9,7 miliardi di abitanti nel 2064. Si prevede infatti che dopo aver toccato il picco, atteso fra 44 anni, il numero di esseri umani si ridurrà a 8,8 miliardi. L’ultima volta che fu registrata una decrescita demografica globale è accaduto in pieno Medioevo, a causa della diffusione della peste nera uccise decine di milioni di persone, tra le quali un terzo della popolazione europea. Questo scenario è sorretto da evidenze scientifiche e si basa sull’impatto che fattori come la mortalità, il declino della fertilità, le migrazioni e i cambiamenti climatici avranno sulla popolazione globale umana dei prossimi otto decenni.