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Sars-Cov2: chi sono i “resistenti” al virus?
L’intervista al prof. Giuseppe Novelli, direttore del laboratorio di genetica medica dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata
Una famiglia composta da 5 persone: marito di 54 anni, moglie di 56 anni e 3 figli di 23, 20 e 13 anni. Il primo ad ammalarsi di Covid-19 è stato papà Claudio che con l’arrivo dei sintomi, prima tosse e poi febbre, si è sottoposto al tampone il 17 ottobre 2020, ed è risultato positivo. Dopo un paio di giorni i primi sintomi, spossatezza e qualche linea di febbre, per il figlio ventenne. Tutto il resto della famiglia ha così effettuato il tampone ed anche i due figli grandi sono risultati positivi al nuovo coronavirus, mentre mamma Francesca e il piccolo Massimo negativi. Dei 3 componenti della famiglia, l’unico ad aver avuto un principio di polmonite è stato Claudio al quale è stata prescritta la terapia con azitromicina. Al terzo giorno di assunzione del farmaco la febbre è scomparsa. Nessun isolamento e tutti hanno vissuto sotto lo stesso tetto. Nonostante la convivenza, la mamma e il figlio più piccolo non hanno avuto sintomi e sono sempre stati bene: non hanno contratto l’infezione Sars-CoV2.
Una resistenza al virus nonostante lo stretto contatto con una persona (nel caso della testimonianza 3 persone, n.d.r.) positiva accertata.
Com’è possibile questa naturale immunità? La risposta è nella genetica?
Un team di genetisti del Policlinico di Tor Vergata di Roma guidato dal Prof. Giuseppe Novelli sta portando avanti una ricerca- i primi risultati pubblicati sulla rivista Science – firmata dal Consorzio internazionale di genetica Covidhge, in collaborazione con l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, sulla variante genetica legata a forme più severe di Covid-19. Uno studio importante che potrebbe anche aprire la strada a nuove terapie personalizzate.
“Non tutti gli individui si ammalano allo stesso modo: ci sono gli asintomatici, i lievi sintomatici, i moderati, i gravi ed i gravissimi. Se il virus è lo stesso, cos’è che fa la differenza? È l’ospite, la persona. Da qui lo studio per capire quali sono i fattori di rischio o la resistenza al virus, ovvero quando un individuo non solo non si ammala ma non trasmette l’infezione”. Le parole del Prof. Giuseppe Novelli, direttore del laboratorio di genetica medica dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata intervistato da Health Online. “In merito alla testimonianza, per valutare se la mamma e il figlio abbiano o meno contratto il virus, nel loro caso in forma asintomatica, avrebbero dovuto effettuare un esame sierologico di conferma. Questo avrebbe permesso di verificare l’eventuale negatività agli anticorpi, nonostante l’esposizione prolungata al virus. Quindi, non possiamo affermare con certezza che si tratti di “un’elevata capacità di risposta immunitaria” perché non abbiamo dati quantitativi in merito. Quello che ci auguriamo, mediante il nostro studio, è di arrivare a rispondere anche questo quesito e di fornire una visione quanto più chiara possibile in merito a questa variabilità della risposta immunitaria dell’ospite”.
Com’è nato il progetto internazionale?
Da diversi mesi collaboro con un consorzio internazionale, il COVID Human Genetic Effort, con lo scopo di studiare i fattori genetici associati a forme severe della patologia. Tra i vari gruppi di ricerca, noi come Università di Tor Vergata insieme all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ed altri laboratori da tutto il mondo, stiamo studiando la risposta immunitaria all’infezione che, come sappiamo, è piuttosto variegata. In particolare, per questo progetto stiamo cercando individui risultati negativi alla ricerca del virus che abbiano avuto un contatto stretto e prolungato con un soggetto sintomatico, affetto da SARS-CoV-2. Perché è importante studiare non soltanto i pazienti gravi, ma anche e soprattutto quelli apparentemente immuni. Quindi parliamo di persone che hanno avuto uno o più casi di COVID-19 in famiglia, come il coniuge, per esempio, con il quale hanno convissuto durante la malattia per l’impossibilità ad isolarsi o, come spesso accade, per motivi assistenziali, situazioni in cui non vengono messe in atto le normali pratiche di sanificazione e di protezione individuale con l’uso della mascherina. Sesso ed età non sono fattori discriminanti, la cosa importante è che il soggetto sia risultato negativo ai tamponi antigenici o molecolari effettuati ed alla ricerca degli anticorpi specifici contro il virus.
Il motivo per il quale un soggetto non si infetta ed è immune al Covid-19 dipende da fattori genetici?
Come per tutte le malattie infettive, anche per il COVID-19 la predisposizione a contrarre l’infezione in forma più o meno grave è determinata da un insieme di fattori che sono in parte di natura genetica ed in parte di natura ambientale. I fattori genetici sicuramente influiscono nel determinare un’aumentata suscettibilità all’infezione oppure, al contrario, possono contribuire a rendere un soggetto resistente o, se vogliamo, immunotollerante rispetto ad un determinato agente infettivo. Prendiamo l’HIV per esempio: il virus utilizza dei recettori di parete come porta di ingresso all’interno della cellula, tra cui CCR5, espresso sulla superficie dei linfociti. Ci sono persone che presentano una mutazione inattivante a livello di questo recettore, che pertanto non funziona. Dunque, questi soggetti diventano resistenti ai ceppi di HIV che hanno bisogno di legarsi a CCR5 per infettare la cellula.
Quali sono stati i primi risultati dello studio internazionale?
La risposta è stata sensazionale. Ci hanno scritto da tutta l’Italia per poter prendere parte al nostro studio. Al momento siamo ancora nel pieno della fase di reclutamento, ma unendo la nostra popolazione campione a quella degli altri centri che portano avanti lo studio raggiungeremo un numero significativo di casi.
Dalla ricerca, considerata una delle 10 scoperte più importanti del 2020, è emerso che il 12-15% delle persone che hanno contratto la malattia da Covid-19 nella forma grave ha un difetto genetico nella produzione dell’interferone. Che significa?
L’interferone fa parte della prima linea di difesa del nostro sistema immunitario, una volta che viene prodotto stimola una risposta immunitaria antivirale attraverso l’espressione di geni specifici, i cosiddetti Interferon Stimulated Genes (ISGs). Chiaramente, se ho un difetto nella sua produzione, anche il segnale a valle è indebolito ed il sistema immunitario non viene allertato come dovrebbe.
Lo abbiamo visto nel nostro studio su Science: difetti legati al pathway di segnalazione dell’interferone si associano a forme gravi di malattia, che altrimenti faremmo fatica a spiegare. Abbiamo inoltre osservato che in circa il 10% dei pazienti l’interferone viene prodotto, ma non viene utilizzato perché neutralizzato dai pazienti stessi mediante la produzione di autoanticorpi. Il risultato è lo stesso: non produzione di interferone. Questa evidenza ha permesso di sviluppare una nuova terapia per questo gruppo di pazienti: la “plasmaferesi” cioè l’eliminazione di questi autoanticorpi dal sangue.
Se c’è una percentuale di soggetti che non produce l’interferone, l’antivirale per eccellenza prodotto dall’organismo, ci sono anche individui che ne producono tanto da creare una barriera al virus?
Possibile! Ma non dimentichiamoci che esistono diversi tipi di Interferone, in grado di stimolare risposte differenti. Ad esempio, gli interferoni di tipo I non sono soltanto coinvolti nella risposta antivirale, ma anche in quella infiammatoria. Quindi, anche nell’utilizzo di queste molecole a scopo terapeutico, è stato visto che il tempismo ha un’importanza fondamentale, perché la somministrazione tardiva potrebbe essere non soltanto inutile, ma anche controproducente, portando ad un aumento della risposta infiammatoria e ulteriore danno di organi e tessuti.
Variabilità individuale, da cosa dipende questa immunità?
Per variabilità individuale si intende la capacità ci ciascun individuo di rispondere all’ambiente che lo circonda, adattandosi di volta in volta alla sfida che deve affrontare. L’organismo umano fa parte di un ecosistema semi-aperto ed è perennemente in equilibrio dinamico. Pertanto, il protagonista in tal senso è la persona, e le informazioni genetiche che ne sono alla base. Una particolare predisposizione può essere vantaggiosa o meno, anche in base al posto in cui si vive. Sappiamo benissimo che l’anemia mediterranea è endemica in molte regioni meridionali della nostra penisola. Questo perché è ormai risaputo che conferisce un certo grado di resistenza, una protezione se vogliamo dire, nei confronti del Plasmodium spp, agente responsabile della cosiddetta malaria. Ogni individuo quindi è diverso dall’altro, e da un punto di vista squisitamente genetico, può essere portatore di caratteristiche uniche che lo rendono più o meno soggetto all’evolversi degli eventi.
Parliamo delle barriere di difesa immunitaria…
La difesa immunitaria, semplificando, è composta principalmente da tre ordini di difesa: una barriera fisica, una difesa chimica, ed una risposta biologica.
L’immunità innata rappresenta la prima linea di difesa messa in atto dal nostro corpo nei confronti di un agente esterno. È definita innata perché aspecifica, uguale per tutti gli agenti patogeni e soprattutto non selettiva. Ovviamente, deficit a carico del sistema immunitario innato comportano una condizione che facilita enormemente l’ingresso del patogeno all’interno dell’organismo. Ma non sempre un’aumentata risposta comporta un sistema difensivo maggiore. Sappiamo ormai tutti che esistono le cosiddette patologie autoimmuni. Anche nel COVID-19, in molti pazienti, soprattutto i più giovani, gli esiti della malattia sono causati da un’eccessiva attivazione del sistema immunitario. Una sorta di iperinfiammazione.
Diversa, invece, è l’immunità adattativa o specifica. In questo caso, l’organismo ha avuto modo di “conoscere” il patogeno, di studiarlo. Ciò permette alle nostre cellule di rispondere in maniera efficace e specifica, attraverso la produzione sia di anticorpi, e da qui anche l’importanza della terapia con gli anticorpi monoclonali, sia di cellule di memoria. Anche in questo caso, una maggiore risposta non è sinonimo di una maggiore immunità. L’immunità innata e quella specifica non devono essere considerati due step consecutivi, ma agiscono sinergicamente e sono in equilibrio dinamico fra di loro.
Può essere sufficiente la risposta immunitaria innata o aspecifica a sconfiggere il virus?
No, assolutamente no. L’immunità innata è importante ma non è sufficiente a sconfiggere il virus. Come ricordato, è importante che l’organismo sviluppi una risposta specifica per spegnere la malattia. Abbiamo notato un alto tasso di asintomatici, come anche un numero rilevante di casi severi, che purtroppo, il più delle volte, hanno portato alla morte.
Per aiutare il nostro sistema, fortunatamente, abbiamo una serie di strumenti, altamente innovativi ed efficaci. Un esempio su tutti è il vaccino, che permette di fornire le istruzioni al nostro organismo per rispondere con efficacia contro il virus, prima ancora di entrare in contatto con il virus stesso. Il fattore tempo è quindi importante, come è importante una risposta adeguata ed altamente specifica contro il patogeno. I vaccini rientrano in quella che noi chiamiamo medicina di prevenzione, e forniscono, il più delle volte, un’immunità duratura, o permanente. Questo perché stimola il nostro sistema immunitario, permettendogli non solo di disporre una risposta efficace, ma anche quella di produrre cellule di memoria, senza sviluppare la malattia.
Diversamente, una risposta passiva è data dall’utilizzo del plasma iperimmune o meglio ancora dagli anticorpi monoclonali, se utilizzati in una fase precoce dell’infezione.
Avete iniziato con lo studio dei casi gravi. Una carenza della barriera innata può essere la causa dei sintomi gravi del virus?
Certamente, ormai non si tratta più di un’ipotesi, è stato ampiamente dimostrato. Immunità innata ed adattativa servono entrambe, rappresentano il risultato di milioni e milioni di anni di evoluzione. Sarebbe un po’ come pensare di combattere una guerra con un esercito privo di fanteria o cavalleria, l’una non sostituisce l’altra.
Oltre alla genetica, quali sono gli altri principali fattori di rischio?
La genetica rappresenta, come in molte patologie, un background fondamentale. Il COVID-19 è una malattia sistemica, multifattoriale e poligenica. Oltre a fattori genetici, esistono i cosiddetti fattori ambientali, che possono essere non modificabili, come l’età, il sesso, l’etnia; o modificabili, come lo stile di vita. L’insieme di tutti questi tasselli, quando presenti e se presenti, giocano un ruolo fondamentale all’interno del quadro clinico di ciascun paziente. Ed ovviamente, quando possibile, bisogna intervenire in maniera mirata.
Una delle finalità dello studio, che sta raccogliendo sempre più casi in tutto il mondo attraverso criteri di selezione, testimonianze e campioni di sangue su base volontaria, è quella di scoprire quali sono i geni di resistenza utile allo sviluppo della medicina personalizzata “Negli ultimi anni – conclude il prof. Novelli – si sente sempre più spesso parlare di medicina personalizzata, in questo senso, individuare le basi genetiche responsabili di questo fenomeno potrebbe portare allo sviluppo di farmaci efficaci, nell’ambito della farmaco-genetica, per curare in modo più efficace chi si ammala di Covid-19. La scienza è la nostra strategia di uscita”