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Lo studio di un vettore fotoattivo che elimina le cellule tumorali
Realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna grazie al progetto NanoPhage sostenuto da Fondazione AIRC. Ne parliamo con Matteo Calvaresi, professore al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna e coordinatore dello studio
Un virus “buono”, lungo 1000 nanometri e largo solo 5, modificato geneticamente è in grado di trasportare un farmaco nell’organismo per eliminare le cellule tumorali in modo mirato e non invasivo. È lo studio – che ha conquistato la copertina della rivista Nanoscale – realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, nell’ambito del progetto NanoPhage sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. “Oggi più che mai sappiamo che i virus possono essere pericolosi avversari per gli esseri umani. È tuttavia importante ricordare che alcuni virus possono rivelarsi preziosi alleati nella lotta contro le malattie, compreso il cancro”. Ha detto Matteo Calvaresi, professore al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna e coordinatore dello studio.
Gli studiosi hanno sperimentato un virus che per le sue caratteristiche può diventare una piattaforma efficace per ospitare e trasportare nanomateriali. In particolare, l’obiettivo era trasformare il virus in uno strumento per implementare una terapia fotodinamica anticancro. La capacità del virus modificato di riconoscere in modo mirato e non invasivo le cellule tumorali e la possibilità di controllare con precisione l’area in cui attivare la terapia, irradiandola con la luce, potrebbero contribuire a ridurre drasticamente gli effetti collaterali delle terapie antitumorali.
Per saperne di più abbiamo intervistato il professor Matteo Calvaresi.
Come nasce lo studio?
Lo studio nasce da un incontro con il Prof. Alberto Danielli, professore del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie, che ha co-coordinato con me le attività della ricerca. Il mio gruppo si occupava già da tempo di terapia fotodinamica per il cancro e stavamo cercando un vettore specifico per le nostre molecole, il Prof. Danielli aveva appena cominciato a sviluppare una metodologia per modificare geneticamente un virus, il fago M13, ed indirizzarlo verso cellule tumorali, ed abbiamo subito capito che mettendo insieme le nostre diverse competenze potevamo arrivare a sviluppare questo vettore, selettivo per cellule tumorali e fotoattivabile.
In cosa consiste? E qual è la sua particolarità?
Il virus che abbiamo utilizzato, il fago M13, naturalmente attacca un batterio, Escherichia coli, e riesce ad essere assolutamente selettivo verso questo microorganismo poiché presenta un elemento di riconoscimento specifico. Proprio questo elemento è stato modificato geneticamente dal gruppo del Prof. Danielli, per poter reindirizzare il vettore virale verso un altro obiettivo, ovvero cellule tumorali che sovraesprimono un particolare recettore cellulare.
Nel mio gruppo abbiamo poi attaccato chimicamente delle molecole sulla superficie esterna del virus, decorandolo così come si potrebbe fare con un albero di Natale. Il virus si comporta così come un veicolo capace di trasportare le molecole all’interno delle cellule tumorali. La particolarità delle molecole che abbiamo utilizzato, chiamate fotosensibilizzatori, è che si attivano solo dopo aver ricevuto uno stimolo luminoso, uccidendo le cellule tumorali. Questo ci permette di avere un doppio controllo sulla terapia: in primis, le molecole sono trasportate dal virus solo all’interno delle cellule tumorali, e poi possiamo controllare la loro attivazione con la luce, minimizzando gli effetti collaterali nei confronti delle cellule sane.
Cosa è emerso dai risultati?
Prima di tutto abbiamo dimostrato che il virus ingegnerizzato era davvero in grado di riconoscere e trasportare le molecole di interesse all’interno delle cellule tumorali.
E poi che le molecole usate, una volta all’interno delle cellule tumorali ed attivate dalla luce, sono in grado di trasformare l’ossigeno normalmente presente nel nostro organismo in un agente chimico altamente reattivo, capace di uccidere efficacemente le cellule stesse. La piattaforma sviluppata funziona a concentrazioni bassissime, circa mille volte più bassa dei normali farmaci utilizzati attualmente per la terapia fotodinamica. Nel nostro approccio la luce può essere utilizzata come un bisturi, capace di controllare spazialmente l’ablazione delle cellule tumorali. L’utilizzo di metodi fisici per l’eliminazione delle cellule permette inoltre di eliminare il rischio di sviluppare resistenze agli effetti dei farmaci da parte delle cellule tumorali, che rappresenta una delle cause principali del fallimento delle terapie anticancro.
I risultati ottenuti sono anche il primo importante passo per arrivare a una sperimentazione clinica di questo vettore virale che potrebbe anche trovare ulteriori applicazioni mediche, è così?
I promettenti risultati ottenuti a livello cellulare dovranno essere confermati anche dai modelli animali, e solo allora si potrà pensare a sperimentazioni cliniche.
La particolarità di questa nuova piattaforma che abbiamo sviluppato, sta comunque nella grande flessibilità offerta dalla biologia del fago, che ci permette di reindirizzarlo verso diversi obiettivi cellulari e dalla possibilità di attaccare diverse molecole funzionali sulla superficie esterna del virus. Questo approccio modulare consente applicazioni innovative nel campo della terapia e della medicina di precisione, ma anche nella diagnostica e nella biosensoristica.
Utilizzando un approccio simile a quello di questo studio, stiamo lavorando al progetto NeuroPhage, in collaborazione con il Prof. Fabio Benfenati del Ospedale San Martino di Genova, per riattivare i neuroni danneggiati nella malattia di Parkinson e stiamo sviluppando diversi progetti per combattere batteri patogeni, resistenti agli antibiotici.
Perché ha scelto la ricerca?
La curiosità è stata sempre il motore che ha alimentato le mie scelte, fin da piccolo, e la carriera da ricercatore è stata la naturale conseguenza di questa attitudine. Il mestiere da ricercatore mi ha permesso di fare dello studio un lavoro, quando si intraprendono progetti così interdisciplinari non si finisce davvero mai di imparare, approfondendo anche campi molto distanti rispetto a quello di chimico, che è stato il mio ambito di studio. Il lavoro da ricercatore è poi spesso un lavoro di squadra e rappresenta uno stimolante confronto con idee ed approcci diversi. Gestire il mio gruppo di ricerca mi permette inoltre di essere sempre in contatto con giovani pieni di voglia di scoprire.
Oggi è il coordinatore di un gruppo di ricerca con un progetto rivoluzionario per combattere il cancro. Cosa rappresenta per lei e per la sua carriera in ambito di ricerca scientifica questo studio?
Questo progetto e questo studio rappresentano un riconoscimento non solo personale, ma a tutto il lavoro che il mio team del NanoBio Interface Lab ha fatto in questi anni per la messa a punto di terapie innovative per il cancro attraverso l’uso delle nanotecnologie.
Questo grant rappresenta un punto di discontinuità nel mio percorso professionale. Mi permette finalmente di focalizzare la mia attività di ricerca su un target ben definito e di poter portare le mie ricerche da un ambito strettamente di base ad un aspetto più applicativo e traslazione. Occorre riconoscere il coraggio che AIRC ha avuto nell’investire in un progetto che poteva apparire visionario e molto lontano dalla clinica.
Qual è il suo messaggio ai giovani ragazzi che vogliono intraprendere la carriera di ricercatori?
Di credere nelle loro idee e di provare a sfidare gli approcci, le pratiche e i modelli di una cultura troppo specialistica che spesso ci viene inculcata. Bisogna sempre mettersi in gioco e farsi contaminare da idee che provengono da mondi apparentemente lontani. Abbiamo bisogno di abbattere i confini che troppo spesso ci affibbiano le nostre etichette accademiche. Non esiste più la ricerca chimica, fisica, biologica o medica, concepita come camere stagne, ma per affrontare le sfide del futuro dobbiamo saper unire le forze per mettere insieme competenze ed approcci diversi.