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Albinismo, “Accettare sé stessi per essere come gli altri”. Intervista a Elisa Tronconi, presidente di Albinit
“Non chiamatela malattia!” Non ci sta Elisa Tronconi, albina e presidente dell’Associazione Albinit che torna a puntare l’attenzione su una condizione, l’albinismo, di cui ancora oggi molti sanno realmente poco. Causata da fattori genetici, questa condizione colpisce nel mondo circa una persona su 15-20.000 mila, ma in alcune regioni è estremamente diffusa e rappresenta una triste piaga sociale e culturale. È questo, principalmente, il caso di alcune aree dell’Africa, in cui l’incidenza è di gran lunga superiore. Nell’Africa sub-sahariana, le unioni fra consanguinei provocano infatti una maggiore diffusione di questa anomalia genetica congenita. Si stima che in Tanzania nasca un bambino albino ogni 1.400, mentre nello Zimbabwe sia albina una persona ogni 1000. Non è un caso, infatti, che tutte le campagne di sensibilizzazione promosse nel mondo sul tema mettano al centro la persecuzione degli albini africani. Tuttavia, seppur lentamente, anche nel continente africano la situazione sta cambiando: pochi mesi fa in Malawi, nell’Africa Sudorientale, un deputato albino ha conquistato un seggio in Parlamento. Si tratta di Overstone Kondowe, attualmente presidente della sessione dell’Unione Africana dedicata alle persone albine
Elisa Tronconi perché oggi è fondamentale tenere alta l’attenzione su questo tema?
Ciò che è diverso fa spesso paura, anziché incuriosire, integrare e includere. Il più delle volte i social network disgregano ed escludono. Anche per questa ragione occorre sensibilizzare. Sembra paradossale nel momento attuale ma malgrado un livello di cultura senz’altro più elevato rispetto al passato, c’è ancora poca conoscenza che conduce a comportamenti malfidenti, ed in alcune regioni del mondo spesso anche legati alla superstizione. Moltissime persone caratterizzate da una forte mancanza di conoscenza riservano un atteggiamento di diffidenza e di allontanamento rifuggendo ciò che è diverso. Per questa ragione oggi è quanto mai necessario sensibilizzare l’opinione pubblica su diversi argomenti e anche su questa condizione.
Spesso in relazione a tematiche di comunità, si ritiene che la didattica possa essere il luogo deputato alla costruzione di una cultura dell’accoglienza che nulla ha a che vedere con il pregiudizio. La scuola è pronta a questo?
Ovunque possibile, Albinit APS collabora volentieri con le dirigenze scolastiche delle scuole frequentate da bimbi albini, per spiegare le difficoltà connesse a questa condizione ed eventualmente anche per partecipare ai gruppi di lavoro incaricati di redigere i piani educativi individualizzati (PEI). Oggi, rispetto agli anni in cui ero io tra i banchi di scuola, la maggiore disponibilità di conoscenze e di tecnologie rende la situazione potenzialmente più favorevole ma, in verità, avere in classe un bambino ipovedente può ancora rappresentare una sfida per l’insegnante. E la soluzione non sempre è così facile come magari si potrebbe pensare. Oggi si può disporre di molti diversi strumenti didattici innovativi che agevolano l’apprendimento, mentre quarant’anni fa il mio solo supporto era una lente di ingrandimento, ma questo non basta, perché l’aiuto maggiore può venire solo da un’insegnante sensibile e in grado di ascoltare i bisogni specifici, perché non esistono ricette efficaci in tutti i casi. L’accompagnamento di un educatore attento è sempre l’aiuto più prezioso per il bambino e fondamentale alla sua crescita, anche per evitare che alcuni accorgimenti apparentemente molto efficaci (“ti metto al primo banco, così vedi meglio la lavagna”) finiscano col discriminarlo ulteriormente anziché aiutarlo ed includerlo.
Alla scuola si affianca la famiglia. In che modo può aiutare?
Il fulcro e la chiave di volta di tutto è l’accettazione di sé stessi, un percorso che deve essere avviato nella tenera età e che non ha una vera e propria conclusione. Quando parliamo di accettazione chiamiamo in causa sempre il genitore che il più delle volte diventa colpevole di iper-protezione ed è dunque sempre alla ricerca di una soluzione del problema.
Cosa possono fare una madre o un padre?
Il percorso più corretto è concentrarsi sulle potenzialità del bambino. Io stesso da ragazzina ho cercato di arrivare all’autonomia in tutto misurandomi con i limiti che avevo, un’autonomia orientata alla non totale dipendenza di supporti digitali. Io mi sono abituata all’utilizzo della lente di ingrandimento: mezzo antiquato, è vero, ma che funziona sempre. Demandare a supporti digitali è molto più vincolante. Per questo ho sempre cercato di ragionare sempre con un piano b.
A proposito di lavorare sulle problematiche. Ad oggi non c’è ancora una terapia atta a curare questa condizione. È così?
L’albinismo è una condizione genetica rara. Si è albini dalla nascita, albini non si diventa. Ad oggi la terapia aiuta ad alleviare i sintomi ma non li elimina. Non esiste una terapia perché intervenire sui geni è sempre molto delicato e anche “eticamente pericoloso”, ad oggi la terapia aiuta ad alleviare i sintomi ma non può eliminare le cause. Sono del parere che con questa condizione si possa convivere e che la ricerca può concentrarsi su altre malattie rare che mettono a rischio la vita della persona. L’unica cura all’albinismo è quella di mettere in atto una serie di meccanismi di protezione rispetto al sole, alle luci, servendosi di specifici ausili che supportano le carenze visive. Vitale poi è il supporto della famiglia che permette di vivere una vita pressoché normale.
La sua famiglia c’è stata?
Certamente. È stato difficoltoso arrivare a un’accettazione di me stessa. Non bisogna pensare di essere visti come persone con albinismo ma come persone. La fatica c’è perché occorre un doppio impegno. Oggi però, a cinquant’anni, posso dire di avere fatto tutto.
Questa sua determinazione l’ha portata poi a istituire Albinit…
Devo ammettere che l’Associazione è nata per caso. Mia mamma aveva letto un invito sul giornale di Telethon di una signora che raccontava la sua esperienza con la figlia albina. L’ho contattata e ci siamo raccontate. Nel corso di quella chiacchierata mi sono resa conto che tutti i problemi di questa bambina li avevo vissuti negli anni. Gradualmente intorno a noi si è costituita una rete di ascolto e condivisione e nel 2008 è nata Albinit che oggi collabora con l’ospedale Niguarda di Milano e gli Ospedali Civili di Brescia e conta oltre 120 associati su un potenziale bacino di 2400 persone, basato sull’incidenza numerica di persone con albinismo.