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La sindrome della capanna da covid
La paura della pandemia e gli eventi storici che hanno segnato il novecento
Cambiano i costumi e le foto sono in bianco e nero, del resto erano gli anni ‘20 del secolo scorso, ma le mascherine, quali dispositivi di protezione individuale, c’erano già (ma di garza).
È trascorso esattamente un secolo dall’insorgere della Spagnola ma confrontando il materiale fotografico con la documentazione relativa alla pandemia Covid19 è facile notare come le analogie non fatichino ad emergere. “Le scuole sono state chiuse come pure le fabbriche per un po’ di giorni, non fanno più nessuna sepoltura, [le salme] le portano via come i cani”. È quanto si legge in
una lettera scritta ai parenti emigrati a Ellwod City negli Stati Uniti nel pieno della pandemia di Spagnola, come racconta Eugenia Tognotti (La “spagnola” in Italia, Franco Angeli editore)
restituendoci una narrazione che risulta essere del tutto attuale se rapportata a una delle prime testimonianze condivise nella primavera del 2020. Quello che si verifica, dal primo Novecento ad le pandemie esistono da sempre, ma con l’intensificarsi degli scambi commerciali e dei viaggi transcontinentali la loro intensità si è accresciuta esponenzialmente. Non a caso, la stessa peste nera del 1300 si diffuse in Europa dall’Estremo oriente tramite le carovane dei mercanti. Ciò che invece cambia sono gli effetti psicologici derivanti da questi periodi emergenziali.
Il ‘900 è stato il secolo delle grandi tragedie (guerre, carestie, carenze sanitarie) ma anche di gravi influenze, alcune mortali, che hanno decimato la popolazione mondiale: Spagnola,
Asiatica e Hong Kong. Causate da tre sottotipi antigenici differenti del virus dell’influenza A, rispettivamente H1N1, H2N2, e H3N2, sono passate alla storia non come “pandemia” ma
come epidemie. Nel 1918, mentre le potenze mondiali si contendevano i confini degli Stati, circa un terzo della popolazione mondiale fu colpito da un’infezione eccezionalmente severa che provocò la morte di 50 milioni di persone, alcuni ipotizzano fino a 100 milioni.
Numeri drammatici che raccontano la “Spagnola” come una vera e propria strage non raccontata a gran voce, anzi nascosta, sminuita dai media del tempo, perché i popoli erano già colpiti dal conflitto mondiale. Pertanto in un silenzio drammatico, che niente ha a che vedere con il flusso continuo degli odierni social network, si spezzavano vite di bambini, uomini e donne adulti, anziani, soldati. Stando alle cronache del tempo la pandemia esplose ad Haskell County, nel Kansas, nel marzo del 1918, ed interessò l’esercito a Fort Riley, in Kansas. Progressivamente si diffuse in tutti gli accampamenti dell’esercito negli Stati Uniti e lungo le strade usate dal traspotrasporto militare. La prima segnalazione della malattia però fu fatta in Spagna ai primi di febbraio: l’Agenzia di stampa spagnola FABRA aveva pubblicato una nota informativa: “Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid … l’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi mortali”. Era solo l’inizio. È proprio l’alba di ogni nuova pandemia la prima analogia: l’uomo non sa mai che cosa accadrà, così, schierandosi dietro il sempre legittimo beneficio del dubbio, banalizza, rassicura, razionalizza. Nella peggiore delle ipotesi, e in questo l’industria cinematografica ne ha da vendere, c’è un nemico subdolo come un virus, invisibile e letale, che suscita le più diverse paure. La pandemia “Asiatica” del 1957, originata in Cina e diffusasi in tempi rapidi nel sud est asiatico, ne è la dimostrazione. Il virus responsabile fu identificato nel sottotipo H2N2, nuovo per l’uomo, derivante dal precedente virus umano H1N1 che si era rimescolato con un virus dell’anatra da cui aveva ricevuto i geni che codificano l’H2 e l’N2. La pandemia impiegò otto mesi per toccare tutti i paesi del mondo mietendo circa 2 milioni di vittime.
Il virus dell’Asiatica scomparve dopo undici anni, soppiantato dal sottotipo A/H3N2 Hong Kong. Era il 1968 e anche in quella occasione la pandemia si allargò a macchia d’olio dal Sud Est Asiatico e tramite le pagine del Times di Londra che accese i riflettori su una grande epidemia in Hong Kong. Il virus non tardò a lambire la costa occidentale degli Stati Uniti d’America con elevati tassi di mortalità, contrariamente all’esperienza dell’Europa dove l’epidemia, nel 1968–1969, non si associò ad elevati tassi di mortalità. In Italia l’eccesso di mortalità attribuibile a polmonite ed influenza associato con questa pandemia fu stimato di circa 20 mila morti.
Procedendo verso la nostra epoca, e tralasciando la diffusione del colera e dell’HIV/ AIDS (ben 32 milioni di morti dal 1981 ad oggi), approdiamo alla Sars. È stato un italiano, l’infettivologo Carlo Urbani, inviato ad Hanoi in Vietnam per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità, ad aver identificato nel 2002 la sindrome respiratoria denominata Severe acute respiratory syndrome, eabbreviata – appunto – con la sigla SARS. Il 18 giugno del 2003 si registravano 8465 casi nel mondo e 801 i morti accertati, per l’OMS la situazione stava migliorando. La malattia, diffusa a Hong Kong da Liu Jianlun, un medico del Guangdong che curava i pazienti al Sun Yat-Sen Memorial Hospital, preoccupò la comunità mondiale fino all’estate del 2003 e fu causata da un coronavirus (così chiamato perché al microscopio appare come una corona circolare) che sul finire del 2019 gli scienziati cinesi hanno rintracciato nei pipistrelli comunemente noti come ferri di cavallo, con gli zibetti quali vettori intermediari. E arriviamo dunque ai nostri giorni, più precisamente al 9 marzo 2020 quando in Italia tutto si è fermato a seguito di un Decreto firmato dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte contenente misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale. Il resto è ormai storia, e noi tutti siamo diretti testimoni di una pandemia che, tra alti e bassi, continua a preoccupare.
Un’altra grande analogia, se confrontiamo i periodi pandemici, riguarda proprio gli effetti psicologici sulle persone. A questo proposito si parla della sindrome della capanna (o del prigioniero) che rappresenta il contraccolpo psicologico delle esperienze vissute nel corso di questi due anni e della paura, riscontrata da molti, di uscire di casa rischiando di contrarre l’infezione e di risultare “positivi”. Allora molto, moltissimo, è cambiato nel corso di un secolo, ma nonostante il grande cambio a livello comunicativo e gli importanti progressi segnati dalla scienza e dalla medicina, le pandemie restano il grande nemico da affrontare in una lotta tra il bene e il male che miete non poche vittime e che invita l’uomo a non abbassare mai la guardia.