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Colesterolo? È una questione genetica. Lo rileva un’indagine civica di “Cittadinanzattiva”
Scarsa informazione, mancata diagnosi e cure inaccessibili sono le principali carenze nella gestione dell’ipercolesterolemia familiare che sono emerse nell’indagine civica presentata da Cittadinanzattiva Onlus lo scorso novembre.
Per 250.000 italiani il colesterolo non è dovuto alla cattiva alimentazione o da stili di vita inadeguati, ma da una questione ‘familiare’, legata ai geni. L’ipercolesterolemia familiare è una patologia poco conosciuta in Italia tant’è che, secondo le stime, solo nell’1% dei casi ha ricevuto una diagnosi corretta mentre in altri Paesi, come l’Olanda e la Norvegia, la percentuale sale fino al 71%.
In tutto il mondo, stando ai dati OMS, le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte e la quinta causa di malattia.
In Italia, secondo i dati del Progetto cuore, il 21% degli uomini e il 23% delle donne è ipercolesterolemico. Il 48% degli italiani con più di 18 anni è in sovrappeso, 20,9% è la percentuale dei bambini in sovrappeso e l’9,8% sono obesi.
Per queste ragioni, Cittadinanzattiva Onlus, per il tramite del Tribunale per i diritti del Malato e del CnAMC (Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici), ha realizzato l’indagine civica “Colesterolo, una questione di famiglia”, con l’obiettivo di rilevare il livello di consapevolezza rispetto alla patologia e ai suoi rischi, nonché la qualità delle cure ricevute dai pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare e le criticità nella gestione quotidiana dei sintomi.
L’indagine è stata condotta attraverso questionari rivolti ai cittadini, oltre 1300, che hanno risposto a domande quali: dislipidemie e ipercolesterolemia familiare, difficoltà della persona e della famiglia, prevenzione, diagnosi, percorso di cura, gestione e monitoraggio della malattia, terapia, umanizzazione. è emerso che circa il 45% degli intervistati, in prevalenza donne con età compresa tra 41 e 30 anni con problemi di colesterolo elevato, riconosce l’ipercolesterolemia familiare come un’elevata concentrazione di colesterolo nel sangue, ma solo poco più di un terzo (34,6%) sa che è di origine genetica.
I dati confermano che la patologia è sotto-diagnosticata. Più di un cittadino su dieci dichiara di aver avuto il primo sospetto in maniera quasi autonoma, cercando sul web, reperendo informazioni in tv o sui giornali; il 40% per il fatto di avere un familiare già affetto, il 29,4% è stato invece diagnosticato dal medico di famiglia; solo l’1,5% ha avuto diagnosi in età infantile grazie al pediatra di famiglia.
Dopo la prima diagnosi, il 60% afferma che i familiari sono stati sottoposti agli esami diagnostici, ma c’è anche un 15% che dichiara che il proprio medico non ha ritenuto necessaria l’estensione degli stessi a tutta la famiglia.
Ma quali sono le cause? Secondo quanto emerso dall’indagine sono: la carenza di specialisti, i costi elevati e i problemi nella cura della patologia.
Oltre un paziente su tre afferma, infatti, di aver difficoltà a individuare uno specialista e quasi il 39% dichiara che c’è poca collaborazione tra specialista e medico di famiglia. Più di un paziente su quattro (26,5%) lamenta la carenza di reparti o centri specialistici. Una volta trovato il centro specializzato subentra un altro problema legato alle lunghe liste d’attesa per visite e per i costi degli esami specifici per il controllo della malattia, a questi si aggiunge il costo eccessivo della terapia farmacologia. Le lamentele per i costi arrivano anche dai genitori dei bambini affetti dalla patologia: il 12,9% sostiene che l’esenzione non copre tutte le prestazioni sanitarie di cui il bambino avrebbe bisogno e il 12% dichiara che il carico assistenziale è troppo oneroso. Così, quasi uno su cinque (19%) si dice costretto a rinunciare ad alcuni esami o visite.
Un’altra nota dolente è la prevenzione: un intervistato su due dichiara di riscontrare difficoltà nello svolgere una regolare attività fisica, circa il 42% a seguire una corretta alimentazione e il 18,2% ad abbandonare la cattiva abitudine del fumo. Cambiare lo stile di vita poco salutare non è facile, a causa dell’abitudine ad una vita sedentaria (24,8%), ma anche perché l’attività a pagamento è costosa (20,7%), perché mangiare sano è faticoso (24%). La prevenzione è lasciata alla “buona volontà” del singolo individuo e non è incentivata né sotto il profilo formativo ed informativo, né sotto il profilo economico né tantomeno quello psicologico.
Di fronte ad uno scenario di questo tipo Cittadinanzattiva Onlus, che tra le sue attività si occupa di Sanità con il Tribunale per i diritti del Malato e con il CnAMC, ha avanzato alcune proposte, tra le quali “promuovere attività di informazione e formazione rivolte prioritariamente ai professionisti sanitari, medici di medicina generale e pediatri di libera scelta in primis e alla popolazione in generale, per arrivare ad una diagnosi precoce e sfatare falsi miti come l’attribuzione delle cause allo stile di vita e/o alla dieta”; ma anche “promuovere e costruire un percorso diagnostico-terapeutico assistenziale di riferimento nazionale che garantisca diagnosi precoci, continuità assistenziale, presa in carico, prevenzione delle complicazione e riduzione della variabilità clinica; incentivare fin dalla prima infanzia campagne di promozione ed educazione ai corretti stili di vita, vigilando sull’alimentazione, in particolare scolastica; intervenire con disposizioni specifiche come la tassazione del junk food, ossia del cibo spazzatura, come accade in altri paesi d’Europa”.
Fonte: ufficio stampa Cittadinanzattiva