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Il “Sacco” di Milano propone il modello Cotugno. “Se non cambiano le cose convivremo con il COVID-19 fino al prossimo autunno”. La parola a Maurizio Viecca
Il “Sacco” di Milano propone il modello Cotugno. “Se non cambiano le cose convivremo con il COVID-19 fino al prossimo autunno”. La parola a Maurizio Viecca
“È una lotta contro il tempo che ci preoccupa perché temiamo duri fino al prossimo autunno”. In prima linea nella battaglia contro il COVID-19, il direttore del reparto di Cardiologia dell’ospedale “Sacco” di Milano, Maurizio Viecca, non nasconde le proprie paure e chiede alle autorità politiche di adottare il modello di Cotugno (Napoli), uno dei pochi ospedali italiani in cui non risulta contagiato neanche un medico o infermiere e per questo noto all’estero per essere la migliore struttura ospedaliera in Italia per organizzazione e qualità del servizio offerto. È questo il primo dato che balza all’onore delle cronache, il crescente numero di decessi nelle strutture sanitarie. Una dimensione difficilmente quantificabile che vede tra i primi infetti tutti coloro che si adoperano ogni giorno, senza sosta, a favore dei pazienti. “Lavoriamo di continuo e a volte affrontando doppi turni. Torniamo a casa con i segni della mascherina sul viso e ci chiediamo quando tutto questo avrà fine”. Affaticato ma non per questo arrendevole, il Direttore Viecca confida nell’utilizzo massivo delle mascherine, dispositivi di protezione fondamentali per contrastare il Coronavirus. “L’agente patogeno – spiega – sopravvive nelle bollicine di aerosol per oltre 30 minuti e arriva a 4 metri e mezzo a distanza. Proteggersi il viso è importante, soprattutto per tutti coloro che sono a contatto con il pubblico”.
Dottor Viecca, l’ospedale “Sacco” di Milano è in prima linea nella lotta al COVID-19. Qual è la situazione?
La situazione non è delle migliori. Siamo molto preoccupati dell’onda lunga; di questo passo, se non modifichiamo i sistemi di controllo come è stato fatto in Cina o in Giappone, arriveremo all’autunno. Il personale medico-infermieristico è al 70% positivo e non ci sono sicurezze per i nostri pazienti. Un mio assistente vive in Cina e mi racconta che nel Paese le verifiche sono ferree: ogni mattina uscendo di casa incontra un poliziotto che gli misura la temperatura corporea accertandosi sui suoi spostamenti. Da noi invece questa epidemia sin dall’inizio non è stata affrontata nel modo giusto. Gli ospedali sono in ginocchio e la conferma arriva dal numero di medici e di infermieri che perdono la vita quotidianamente.
Lei parla di un modello italiano che dovrebbe essere assunto sull’intero territorio nazionale. Di quale Ospedale si tratta?
L’esempio di Cotugno, a Napoli, è paradigmatico. Non hanno perso tempo: sono partiti in fretta avendo alle spalle un’esperienza pluridecennale in riferimento a colera, HIV, Sars, Ebola. Oltre al fatto che normalmente questo ospedale gestisce malattie infettive non epidemiche, come la meningite. In breve tempo è stato completato il Padiglione G la cui costruzione era stata interrotta, realizzando 80 nuovi posti di terapia sub intensiva. Ospitano 200 pazienti Covid-19 al giorno. Intanto è in corso l’allestimento di una nuova sala operatoria ibrida dedicata a operazioni urgenti di pazienti Covid.
Oltre all’esperienza, sono un esempio per formazione del personale e per numero di mascherine…
Una delle prime cause di contagio nei nostri ospedali riguarda la mancata formazione di medici, infermieri e personale sanitario. All’ospedale di Cotugno i nuovi arrivati (chiamati per far fronte all’emergenza epidemiologica in corso) sono stati affiancati a infermieri esperti che hanno assunto il ruolo di formatori. In merito alle mascherine invece, a Cotugno hanno dispositivi di protezione diversi rispetto a quelli usati negli altri ospedali. Il personale indossa tute integrali, e maschere più simili a quelle antigas che alle FFP3.
Eccetto le prime settimane, in cui effettivamente le mascherine erano carenti, oggi invece qual è la situazione?
Questo è un virus che si trasmette per vie inalatorie. L’Oms cade in contraddizione quando sostiene che la mascherina andrebbe indossata dagli uni anziché dagli altri. I dispositivi di protezione devono essere indossati da tutti. È questa l’unica soluzione. La gente non ha capito cosa sono i portatori sani e chi gli ammalati: di fatto cambia poco. Se un soggetto sano entra a contatto con un soggetto malato, il sano dopo 5 giorni è positivo e gli restano due possibilità: o si ammala o non si ammala, ma è comunque un portatore sano che diffonde il virus senza saperlo.
A tal proposito, nel suo Ospedale lei ha donato le mascherine ai visitatori…
Se non avessi regalato la mascherina ai nostri visitatori cosa sarebbe successo? Questo è un film quotidiano: la gente si ammala per qualcosa e poi salta fuori che è positiva al virus. Sottoporre tutti al test del tampone è fondamentale non tanto per scoprire chi è malato e chi no, ma per vedere se c’è l’incubazione. Negli ospedali del Nord il 30/40% di tamponi è positivo, sia sul fronte dei pazienti che per quanto riguarda il personale. Questo ci fa capire che se il personale è costretto per due settimane a casa, i nosocomi non sono in grado di far fronte all’arrivo di nuovi pazienti COVID.
La mascherina è ormai il simbolo di questa pandemia globale. I social sono sempre più popolati da foto che raccontano la realtà: il volto segnato di medici e infermieri o la carrellata di salme che lasciano la Bergamasca. Hanno un potere queste immagini?
Hanno una grande importanza e una funzione educativa. Se noi medici indossiamo la mascherina per tutto il turno e anche fuori dalla nostra struttura sanitaria influiamo psicologicamente su chi ci guarda. In questi contesti le immagini sono tutto: da una parte fanno ben comprendere quello che avviene, e penso alle regioni italiane maggiormente colpite dal COVID-19, e dall’altro educano a un corretto utilizzo di tutte le misure di prevenzione.
In merito ai trattamenti farmacologici anti-COVID: all’ospedale di Castel San Giovanni, a Piacenza, sperimentano l’eparina come antinfiammatorio con risultati incoraggianti. Lei invece propone un Protocollo. Di cosa si tratta?
Il mio protocollo prevede l’utilizzo di un farmaco da aggiungere all’eparina. Si tratta di un antiaggregante: farmaco noto in cardiologia che evita l’adesione tra una piastrina e un’altra. È stato dimostrato che è questi pazienti peggiorano per la formazione di trombi nel circolo polmonare ed è per questa ragione che i colleghi di Piacenza hanno pensato all’anticoagulante eparina. La terapia sfrutta da un lato il potere antiinfiammatorio dell’eparina e, dall’altro, la sua capacità anticoagulante. Elemento, quest’ultimo, che previene una delle maggiori complicanze osservate nei pazienti Covid positivi: la trombosi diffusa. Il trend positivo osservato sugli indici di infiammazione conferma l’utilità dell’impiego in questa patologia.