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Inquinamento Ilva. Corte di Strasburgo: “cittadini non tutelati dall’Italia”
Il caso Ilva si riapre e questa volta è la Corte di Strasburgo a farlo con un’allerta che interessa la salute di tutti.
Al centro del dibattito il persistente inquinamento causato dalle emissioni della grande acciaieria di Taranto che ha messo in pericolo la salute dell’intera popolazione, che vive nell’area a rischio.
Inoltre da Strasburgo arriva una seconda denuncia in riferimento alle autorità nazionali che non avrebbero preso tutte le misure necessarie per proteggere efficacemente il diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti.
La Corte specifica che le misure per assicurare la protezione della salute e dell’ambiente devono essere messe in atto il più rapidamente possibile. Accogliendo il ricorso presentato da 182 cittadini tarantini per i danni che essi dicono di aver subito a causa delle emissioni dell’Ilva di Taranto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato la violazione degli articoli 8 e 13. L’Italia è stata quindi condannata a pagare un risarcimento di 5 mila euro nei confronti di ciascun ricorrente.
Le conseguenze dannose per l’ambiente e la salute delle attività di Ilva erano note al governo italiano almeno dagli anni ‘90. Tuttavia, l’adozione di misure preventive e riparatorie è stata deliberatamente ritardata, in flagrante violazione degli obblighi europei ed internazionali dell’Italia, annota la FIDH. Le organizzazioni firmatarie del report della FIDH hanno quindi chiesto al governo di adottare urgentemente tutte le misure necessarie a limitare e contenere il disastro ambientale e umano causato da Ilva. Lo scandalo di questa vicenda risiede soprattutto nella mancata protezione della popolazione connessa a una mancata informazione.
La più grande acciaieria d’Europa venne fondata nel 1961.
Si tratta di un impianto siderurgico a ciclo integrale, dove avvengono tutti i passaggi che dal minerale di ferro creano l’acciaio. Il fulcro della produzione sono i cinque altoforni, impossibile non vederli svettanti nel cielo, dove viene prodotta la ghisa. Ciascuno è alto più di 40 metri e ha un diametro tra 10 e i 15 metri: al momento quattro altoforni su cinque sono attivi.
L’ILVA di Taranto è parte del Gruppo Riva, che si configura come il decimo produttore mondiale di acciaio. Nel 2011 l’Italia si posizionava all’11esimo posto della classifica dei paesi che producono acciaio, con 28 milioni di tonnellate prodotte annualmente. L’ILVA di Taranto produce da sola circa 9 milioni di tonnellate l’anno e il Gruppo Riva nel suo complesso ne produce più di 17. Ma come si rapporta alla salute degli operai e, più in generale, alla salvaguardia dell’ambiente di cui si è reso altissimo portavoce il presidente francese Emmanuel Macron sulla base degli Accordi di Parigi siglati nel 2015. Proprio Bruxelles ha puntato un faro sull’Italia: sale infatti la preoccupazione per gli sviluppi del caso Ilva dopo il ricorso al Tar della Regione Puglia che contesta sia l’assegnazione alla cordata ArcelorMittal/Marcegaglia sia, soprattutto, il piano di risanamento ambientale.
“Sono ormai 18 anni che lavoro in ILVA a Taranto con la mansione di operaio manutentore elettrico. Un lavoro che mi soddisfa e che mi permette di provvedere al sostentamento della mia bambina di 3 anni. Mi ritenevo fortunato fino all’inizio di questo anno quando, a gennaio 2018, l’azienda ha diffuso la notizia della presenza di circa 4000 tonnellate d’amianto al suo interno. Una vera doccia fredda! Mi sono chiesto: “Come reagiremo a questa nuova situazione?” Abbiamo lavorato per anni senza i più elementari dispositivi di prevenzione e protezione come guanti e mascherine. Siamo quindi tutti potenzialmente a rischio? C’era qualcuno che doveva e/o poteva prevenire tutto questo? Se affermativo perché non è stato fatto?”. Sono tutte domande che adesso continuano a girarmi per la testa senza sapere se avrò mai una risposta”. È il racconto di Pasquale Maggi, pubblicato sul sito dell’Ona. L’altissimo livello di tossicità delle emissioni dello stabilimento Ilva è stato ampiamente dimostrato negli ultimi due decenni. A tal proposito, una delle più recenti perizie mediche, ha stabilito che tra il 2004 e il 2010 le emissioni dì polveri sottili avrebbero causato nella zona di Taranto una media di 83 morti l’anno, e di ben 648 ricoveri per cause cardiorespiratorie. A rischio non sono solo gli operai, ma anche i residenti del quartiere Tamburi, uno di quelli più vicini alla fabbrica, assieme al San Paolo.
Nel 2012 sono stati stanziati 110 milioni per la bonifica delle zone avvelenate dall’Ilva: solo il 23 luglio 2015 sono poi stati avviati i lavori di bonifica di una parte del rione Tamburi, con l’avvio del progetto di riqualificazione ambientale “A Tamburi battenti”, finanziato con 210.000 euro in tre anni dalla Fondazione “Con il Sud” e 55.000 euro con i fondi 8xmille tramite la Caritas diocesana, con il coinvolgimento di numerose associazioni locali.