Questo sito Web utilizza i cookie in modo che possiamo fornirti la migliore esperienza utente possibile. Le informazioni sui cookie sono memorizzate nel tuo browser ed eseguono funzioni come riconoscerti quando ritorni sul nostro sito Web e aiutare il nostro team a capire quali sezioni del sito Web trovi più interessanti e utili.
La paura della felicità vista da una prospettiva diversa
“Come te la spiego la paura di essere felici. Quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici”. Inizia così la canzone di Martina Attili, 17 anni, romana, un grande talento espresso in toto nel suo ultimo brano Cherofobia, ispirato ad una forma di ansia che implica la paura di essere felici.
Uno stato d’animo di cui molti ne soffrono, ma pochi ne parlano, perché ormai in tutto il mondo l’obiettivo ultimo è il raggiungimento di una felicità quasi apparente. Sono nate negli ultimi anni, ad esempio, organizzazioni pro-felicità, come Action for Happiness, che mira a formare persone capaci, poi, di agire per una società più felice e attenta a creare benessere nelle proprie case, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e comunità locali.
Tuttavia, il Journal of Happiness and Well-Being ha pubblicato di recente uno studio che parla della cherofobia non come un vero e proprio problema. Molte persone, anche nelle culture occidentali, attenuano deliberatamente i loro stati d’animo positivi e, in diverse nazioni, tra cui l’Iran e la Nuova Zelanda, si pensa che la gioia è seguita dalla tristezza.
L’avversione alla felicità, infatti, rappresenta un atteggiamento con il quale gli individui schivano intenzionalmente tutte quelle esperienze in grado di evocare emozioni positive o di estrema gioia. Tali persone sono convinte, in particolar modo, che potrebbe accadere loro qualcosa di terribile se dovessero andare incontro a momenti di gioia.
Sono state rilevate varie ragioni che causano un tale stato d’animo. Tra queste, vi sono le convinzioni che la felicità:
- Porti a risultati negativi, molto forte nelle culture dell’Asia orientale influenzata dal taoismo il quale cita che “le cose tendono a tornare al loro contrario”. Una ricerca britannica di qualche fa chiese ai partecipanti di scegliere tra una serie di grafici sul corso della vita. I cinesi, a differenza degli americani, scelsero maggiormente quelli che mostravano periodi di tristezza.
- Ti rende una persona peggiore, un pensiero radicato in alcune interpretazioni dell’Islam secondo cui la gioia ti distrae da Dio.
- Rende più creativi. Il pittore norvegese Edvard Munch disse “Le sofferenze emotive sono parte di me e della mia arte. Sono indistinguibili da me e per questo voglio mantenere quelle sofferenze. “
- Può danneggiare gli altri rendendoli, per esempio, eccessivamente invidiosi. Nella cultura Ifaluk, in Micronesia, la contentezza viene associata a ostentazione, sovraeccitazione e insuccesso nello svolgere i propri doveri.
Pertanto, si evince che la ricerca della felicità è ritenuta da molte culture e filosofie dannosa per se stessi e gli altri. Un testo buddista afferma: “E con ogni desiderio di felicità, per illusione essi distruggono il loro stesso benessere come se fosse il loro nemico.” Nel pensiero occidentale, fin dai tempi di Epicuro, si è ritenuto che la ricerca diretta della felicità può ritorcersi contro di noi e danneggiare chi ci circonda attraverso un eccessivo interesse personale. Inoltre, è stato affermato che la gioia può rendere gli oppressi deboli e meno inclini a combattere l’ingiustizia.
Dietro la parola felicità quindi, si nasconde una complessità senza confini. Soprattutto al giorno d’oggi dove, fin dall’infanzia, agli esseri umani viene imposto come scopo principale il conseguimento di una felicità materiale, di spirito… Poco importa, basta che si è felici. È vero, un sorriso al giorno toglie il medico di torno. Ma queste affermazioni, come quelle sopra citate, sicuramente veritiere che aiutano l’anima e l’apparato gastrointestinale evitando gastriti ed ulcere, si dimenticano di un importante dettaglio: tutti i tipi di gioie (affettive, sentimentali, lavorative, ecc.) spesso vengono raggiunte completamente e realmente a seguito di un dolore che può infliggere la nostra vita inaspettatamente, ma senza il quale oggi non saremo le persone che siamo.
Bisognerebbe, quindi, capovolgere il pensiero di base perché non è alla fine di un percorso di gioia che si arriva al dolore ma viceversa.
“È tempo che la psicologia occidentale riconosca in molti individui, e persino intere culture, la voglia di accettare il dolore per raggiungere la felicità”, evidenzia la The British Psychological Society. Come darle torto?