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Le farmacie vincono la guerra contro il virus
Intervista al dottore Filippo Antonio Russo
Sono diventati il vero e proprio presidio di riferimento per il cittadino e se da un lato, l’attuale contesto epidemiologico ha messo in discussione il sistema sanitario nazionale, con molti punti da rivedere alla luca della pandemia, dall’altro le farmacie continuano a raccogliere un riscontro più che mai positivo da parte dell’utenza pubblica e in una visione più ampia di medicina di prossimità. Dall’insorgere della crisi sanitaria da COVID-19 questi presidi di cura, assistenza e accompagnamento, stanno affrontando, con lo spirito di servizio che per natura le contraddistingue, la continua evoluzione a cui i governi, i comitati scientifici e le Autorità sanitarie locali tentano di dare risposta quotidianamente. Da ultimo, il costante aumento della richiesta di tamponi antigenici. Sono migliaia sul territorio nazionale le farmacie che offrono la somministrazione di test antigenici, processando mediamente 500.000 tamponi al giorno. Un contributo decisivo, numeri alla mano, al tracciamento dei contagi e un supporto indispensabile alla ripresa delle attività sociali ed economiche del Paese. La verità è che con lo scopo di garantire ai cittadini il servizio di somministrazione dei tamponi antigenici nel pieno rispetto degli standard di sicurezza, le farmacie hanno saputo organizzarsi: hanno adeguato gli spazi interni ed esterni all’accrescere della richiesta, hanno ampliato gli orari e rafforzato l’organico. Si sono adattate a un contesto mutevole. La pensa in questo modo Filippo Antonio Russo, giovane farmacista impiegato a Reggio Emilia.
Dottor Russo, dall’inizio della pandemia ad oggi diversi sono stati i momenti critici. Quale è stata, a suo parere, la fase in cui i farmacisti sono stati maggiormente esposti?
La fase in cui siamo stati più esposti è stata sicuramente la prima ondata della pandemia, tra la primavera e l’estate del 2020. Regnavano caos e incertezza, non avevamo i giusti elementi per familiarizzare con questo virus, per capire da dove realmente fosse arrivato e se ci fossero le condizioni per arginare in tempi brevi il contagio. Arrivavano tante notizie disordinate, non c’erano strumenti di difesa perché all’inizio era difficile persino trovare i dispositivi di protezione individuale. Ricordo che tanti studi medici avevano chiuso all’utenza pubblica e ricevevano pochissimi pazienti, a volte anche a distanza. Non è mia intenzione colpevolizzare qualcuno, ma all’inizio nel caos più totale e nella paura quotidiana di ammalarsi tanti medici avevano smesso di ricevere pazienti. Per questa ragione la gente, in mancanza del proprio medico, si riversava in farmacia pensando che il farmacista avrebbe potuto aiutarli con farmaci da banco o prevenendo eventuali sintomi con integratori e vitamine. Questo è stato il momento più critico, ma sicuramente anche queste settimane rappresentano una fase non facile di questa pandemia. Le farmacie che effettuano tamponi sono in difficoltà perché se da un lato devono far fronte a fiumi di persone che richiedono un tampone, dall’altro occorre considerare il rischio a cui un così alto numero di tamponi si espone il personale, ricordando che il vaccino non evita il contagio, ma attutisce gli effetti.
In questo senso, le festività natalizie sono state un momento duro da superare…
Il fatto che con le festività natalizie si sia riproposto l’assalto le farmacie è decisamente correlato soprattutto alla possibilità di effettuare un tampone antigienico in farmacia. Oltre che a fronteggiare i virus e le influenze stagionali, che da sempre ci accompagnano, i farmacisti si ritrovano ad indossare l’uniforme del tamponiere. Personalmente credo sia più che giusto e responsabile che gli utenti, vaccinati e non, in determinate occasioni dell’anno, in occasione delle festività natalizie ad esempio, vogliano controllarsi prima di ritrovarsi con amici e parenti. Tuttavia quello che forse non è chiaro è che in farmacia il tampone si effettua per uno screening ma non per finalità di diagnosi. Questo significa che se si avvertono sintomi, se si è in attesa di chiamata al molecolare o in attesa di esito del molecolare e/o se si hanno avuto contatti stretti con persone che sono state confermate positive, non ci si deve recare in farmacia, ma bisogna contattare il medico di famiglia che provvederà al più presto ad attivare un percorso idoneo con l’ASL di competenza.
Avrebbe agito diversamente, qualora avesse potuto?
Credo sia difficile a posteriori giudicare una situazione già verificatasi. Chi ci governa ha dovuto intraprendere decisioni ritenute convenienti per tutti, tanto per la salute pubblica quanto per l’economia del paese, già duramente colpita. Tuttavia io avrei gestito diversamente il discorso Green pass, rendendolo più un elemento di certezza e di difesa che un documento mutevole. Questo particolare certificato di buona salute è nato come pass della copertura anticorpale a seguito del vaccino e della guarigione. Come si può quindi dare una validità al Green Pass senza sapere quanto effettivamente duri la copertura anticorpale del vaccino o quella da post guarigione? Ed ecco che abbiamo una validità ballerina che va dai 6 ai 9 fino ai 12 mesi sulla base di decreti legislativi emanati per far ripartire l’economia e per tornare alla vita sociale. Tutti vorremmo tornare alla “normalità” e tutti lo vorremmo fare in sicurezza, ma non si possono emanare decreti che tengano conto solo dell’aspetto socio-economico e non di quello scientifico. Occorre tenere conto del numero degli anticorpi.
Di fatto, soprattutto in relazione alla seconda fase della pandemia, i farmacisti sono diventati un punto di riferimento per l’utenza pubblica. Secondo lei rappresentano ora il tramite tra il Sistema Sanitario e la “piazza”?
I farmacisti sono diventati un punto di riferimento per l’utenza pubblica proprio perché rappresentano il tramite tra il sistema sanitario e la “piazza”. Con l’arrivo del virus, la figura del farmacista è stata sicuramente riqualificata, ha assunto maggiore importanza. Se in passato, come giudicavano alcuni, il farmacista non era altro che un commesso di medicine, adesso credo venga più visto come un professionista della salute. Basti ricordare come durante il lockdown, quando era tutto fermo e sospeso, la farmacia era una delle poche pochissime attività aperte. La farmacia è oggi al pari dei supermercati, come attività di primaria importanza.
Cosa pensa dei colleghi che non si vaccinano?
Pur premettendo che bisognerebbe avere fiducia verso ogni professionista che svolge il suo lavoro, credo che la scelta a vaccinarsi sia strettamente personale. Quando faccio tamponi mi trovo spesso di fronte persone con patologie autoimmuni che condividono la loro personale esperienza e non posso far altro che rispettare la loro paura nel vaccinarsi perché comprendo quanto sia stato difficile per loro l’aver trovato un equilibrio fra farmaci e cure non farmacologiche che abbia altresì consentito di vivere la vita in maniera serena e tranquilla, nonostante la malattia. Dunque comprendo il timore di molti in relazione a un vaccino che potrebbe alterare il delicato equilibrio che hanno trovato, riaccendendo il lato acuto della loro malattia. Mi dispiace invece raccogliere notizie di persone, anche tra i sanitari, che non accettano la campagna vaccinale a fronte di informazioni distorte. Il virus è questione di scienza, di studi e di dati matematici, non è figlio di teorie di pensiero.
Difatti COVID-19 ha mutato il volto delle farmacie. Cosa si intende con questo?
Che la farmacia stesse cambiando penso fosse già un dato di fatto anche prima dell’arrivo del COVID. Sicuramente possiamo dire che la piccola bottega del farmacista di paese, con al suo interno i bei vasi delle erbe medicali, si è largamente evoluta: non vende più solo farmaci, ma propone servizi che vanno dall’attivazione dello SPID all’analisi dell’acqua di casa. La farmacia è un’azienda e come tale si adatta alle dinamiche del mercato, rimanendo costante nel suo impegno a mantenere sempre al centro la salute e il benessere del cittadino.