Questo sito Web utilizza i cookie in modo che possiamo fornirti la migliore esperienza utente possibile. Le informazioni sui cookie sono memorizzate nel tuo browser ed eseguono funzioni come riconoscerti quando ritorni sul nostro sito Web e aiutare il nostro team a capire quali sezioni del sito Web trovi più interessanti e utili.
I migranti come risorsa per migliorare sanità globale ed economie nazionali
Intervista al prof. Francesco De Domenico
“La mobilità a livello mondiale è il nostro futuro, indipendentemente da leggi e muri”. Questa è l’affermazione centrale sulla quale si basa l’interessante Documento “UCL-Lancet Commission for Migration and Health: the health of a world on the move”, pubblicato lo scorso dicembre dalla Commissione internazionale di specialisti creata congiuntamente da UCL (University College London) e dalla prestigiosa rivista The Lancet, per affrontare la tematica estremamente attuale della salute pubblica in una realtà globale in movimento. Gli stessi temi della ricerca, originariamente improntata su scala mondiale, sono stati successivamente ripresi con riferimento alla situazione europea e italiana anche da uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolto in collaborazione con l’Istituto Nazionale per la Salute, la Migrazione e la Povertà.
Oltre un miliardo di persone si è spostato in tutto il mondo nel 2018, con inevitabili ripercussioni anche di tipo politico che, secondo i componenti della Commissione UCL-Lancet, stanno portando a una emergenza morale collettiva. Gestire eticamente la questione migranti, contrastando i luoghi comuni che li riguardano e iniziando a vederli come risorse invece che come un peso o un pericolo per la società, avrebbe risvolti pratici molto utili, soprattutto in termini di salute globale, qualità del servizio sanitario ed economie nazionali.
Per capire meglio il significato del documento e inquadrarlo in un’ottica più vicina a noi, Health Online, il magazine sulla sanità di Health Italia, ha contattato il professor Francesco De Domenico, esperto e docente universitario di Sociologia della Comunicazione.
Professor De Domenico, il punto di partenza dell’intero documento della Commissione UCL-Lancet è l’affermazione secondo la quale l’idea che “lo straniero porta malattie” sia solo un mito da sfatare, coltivato ad arte per motivi diversi. È d’accordo? Come nascono queste paure?
Secondo i più recenti Dati ISTAT, l’Italia è il paese europeo con l’età media più elevata (il più anziano al mondo dopo il Giappone). E’ chiaro quindi che una società anziana, che continua ad invecchiare causa il continuo calo della natalità, si nutre anche di ansie e di paure: paure per l’economia, per il futuro, per i figli e i nipoti quando ci sono, e per la salute.
A questo si aggiunge la diffusa “retrotopia”, un’ azzeccata definizione creata da Zygmunt Bauman per descrivere la nostalgia per “il bel tempo che fu”, per un più o meno immaginario passato felice. Si tratta di una sindrome che il mondo della cultura in Italia ha creato e alimentato sin dagli anni ’50, come reazione nostalgica ai costi umani e sociali dell’industrializzazione accelerata del paese, idealizzando nel cinema come nella letteratura l’Italia rurale e fingendo di dimenticarne la dura realtà delle malattie diffuse, della scarsa o nulla igiene e sanità, della elevata mortalità (allora sì…), del basso livello dei servizi nelle abitazioni e via enumerando. Si spiega anche con queste paure la crisi europea del Welfare State. Basti pensare che la Gran Bretagna, che pure è stata il paese europeo che per primo ha dato vita nel dopoguerra ad un modello di assistenza sanitaria pubblica a copertura universale comprensivo ed efficiente, oggi si rinchiude nella Brexit nel tentativo di bloccare così l’arrivo di immigrati dall’Europa continentale. Ricordiamo oltretutto, già 20 anni fa, le assurde polemiche sull’idraulico polacco che avrebbe rubato il posto agli Inglesi.
Lei pensa che una reale campagna di comunicazione incentrata sulla paura delle malattie e dello straniero sia in atto, nel nostro e in altri Paesi?
Non è un caso che l’annuale Sondaggio Ipsos sulle priorità degli Italiani evidenzia rispetto allo scorso anno una crescita rilevante dell’ansia per il welfare e l’assistenza unitamente a quella per l’immigrazione. Ancora, sempre l’ISTAT rileva una riduzione del personale sanitario del Servizio Sanitario Nazionale (un problema che non si risolve certo abbassandone la qualità con una sanatoria per il personale non qualificato e diplomato).
Oggi in Italia gli immigrati sono il 10% della popolazione residente, ma nella percezione popolare diffusa sarebbero ben il 28%. Quindi il fenomeno viene amplificato in modo tale da moltiplicare le ansie e la paure. Uno sviluppo comune un po’ a tutti i paesi europei, compresi quelli scandinavi un tempo portati a modello di apertura e di accoglienza. Questa tendenza a rinserrarsi nei confini nazionali gioca anche contro gli stessi paesi mediterranei come l’Italia, la Grecia, la Spagna, considerati nei paesi nordici con sempre maggior diffidenza e sospetto. La paura dello straniero in Italia non può far leva come altrove su gravi episodi di terrorismo islamista, dato che sinora, per fortuna o per altre ragioni, il paese ne è andato praticamente esente. Vi sono stati semmai svariati episodi di criminalità comune, per la verità più spesso provenienti da emigranti dell’Est europeo comunitario che da altri Paesi. E allora il bersaglio della xenofobia si sposta sulla paura per la salute, anche qui amplificando pochi e limitati casi di malattie, che comunque non hanno mai provocato contagi né epidemie, che se si fossero verificati sarebbero stati subito esasperati dai media. Mi sento a questo proposito di condividere le parole di Walter Ricciardi, docente di medicina preventiva e presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (2 gennaio 2019): “Dire in continuazione che i migranti portano malattie è senza fondamento e mette in difficoltà le istanze tecniche, costrette ad una specie di autocensura per non contraddire il livello politico”. Che si tratti di malattie, termovalorizzatori o smaltimento dei fanghi in agricoltura, prosegue Ricciardi, “sono materie decisive per la prevenzione sanitaria e la salute pubblica. Tutto questo mi ricorda la raccomandazione di Donald Trump al National Institute for Health degli Stati Uniti di non pronunciare più il termine evidence based, ossia ‘basato su prove scientifiche’. È un atteggiamento studiato dai populisti, che hanno una grande difficoltà a interagire con la scienza”.
La migrazione è sempre esistita ma ultimamente siamo arrivati a una emergenza morale collettiva: qual è la situazione relativamente all’Italia?
Secondo l’International Organization for Migration dell’ONU, nel 2018 si è visto un crollo degli arrivi di migranti irregolari nella rotta del Mediterraneo centrale verso l’Italia, con una riduzione dell’80% sull’anno precedente. Per contro è cresciuto il numero degli arrivi in Spagna sulla via del Mediterraneo occidentale ed è incrementato di circa un terzo l’arrivo sul fronte del Mediterraneo orientale, soprattutto dal confine terrestre tra Grecia e Turchia. Quindi In Italia i motivi di allarme sono almeno per il momento contenuti, anche se come abbiamo visto la sensibilità popolare sul fenomeno migratorio resta molto alta e addirittura crescente.
Professore, lei condivide la tesi secondo la quale un approccio globale alla salute di migranti e comunità locali possa rivelarsi vantaggioso anche per l’economia del Paese ospitante?
Per rispondere al quesito, mi limito a osservare che il Giappone, il paese che ha la popolazione più anziana al mondo e che quindi ha problemi nel reperire al proprio interno la forza lavoro sia qualificata che meno qualificata necessaria per sostenere la ripartenza dello sviluppo dopo anni ed anni di stagnazione, ha di recente fatto sapere che, andando decisamente controcorrente rispetto agli Stati Uniti del muro contro il Messico, aprirà le proprie frontiere all’immigrazione. E parliamo di un Paese che ha sempre fatto dell’igiene e della sanità un articolo di fede.
Concludo allora con una breve analisi personale: al contrario del Giappone, l’Australia, con una popolazione mediamente molto più giovane, oppone una chiusura ermetica alla sua frontiera marittima con l’Indonesia. Lo stesso che sta cercando di fare ora l’Europa, un continente non precisamente popolato da giovani, nei confronti dei flussi migratori dall’Africa e dall’Asia. L’associazione degli industriali tedeschi ha proprio in questi giorni ipotizzato la mancanza nel paese nel prossimo futuro di circa 1.200.000 unità di forza lavoro, ma la Germania non manifesta alcuna intenzione di riaprire i flussi migratori. Questo è tra l’altro uno dei temi principali su cui si giocheranno le prossime elezioni del Parlamento europeo, sotto lo shock della Brexit e con l’avanzata dei movimenti sovranisti.
Sarà molto interessante allora per tutti noi osservare gli sviluppi futuri.
Per il momento ringraziamo il professor De Domenico per la disponibilità e per i tanti spunti di riflessione che ha offerto ai lettori di Health Online.