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Novità importanti per la disforia di genere
I fattori culturali, sociali e psicologici possono influenzare il genere di una persona? Secondo l’Istituto Superiore di Sanità sì, il cui sottolinea anche che tutti questi elementi definiscono, nello specifico, dei comportamenti tipici per l’uomo e la donna.
In questo contesto si viene a formare la cosiddetta “identità di genere”, una definizione della sociologia nata negli anni settanta in America per descrivere essenzialmente il modo in cui un individuo si identifica.
Il sesso biologico, ovvero l’insieme di tutte le caratteristiche biologiche che contraddistinguono il sentirsi maschio o femmina, spesso coincide con l’identità, altre volte invece non vi è nessuna corrispondenza. Può succedere, infatti, che alcune persone vivono come una donna, ma sono di sesso biologico maschile, o viceversa.
Da ciò è nata la disforia di genere, una condizione per la quale una persona sente la propria identità diversa dal proprio sesso. Talvolta può essere sofferta, in altre circostanze no. Può accadere, difatti, che alcuni individui stanno bene così e anzi, trovano un proprio equilibrio in questa forma di atteggiamento definito anche, dalla moda attuale, transgender.
Il più delle volte però, la contraddizione tra il sesso biologico e l’identità di genere può condurre ad una condizione di profonda sofferenza, ansia, depressione e difficoltà di inserimento in ambito sociale, lavorativo o in altre importanti aree.
Un disagio così forte riguarda specialmente tutti coloro che vogliono cambiare sesso desiderando una femminilizzazione o mascolinizzazione del corpo attraverso trattamenti ormonali e chirurgici.
In generale, la prevalenza della disforia di genere negli adulti (>18 anni) è di 0.005-0.014% per le persone con sesso biologico maschile e 0.002-0.003% per le persone con sesso biologico femminile. Nei bambini sotto i 12 anni invece, il rapporto maschio/femmina va da 6:1 a 3:1; mentre negli adolescenti, oltre i 12 anni, il rapporto maschio/femmina si avvicina a 1:1 (fonte: ISSalute).
Sono disponibili delle terapie per la disforia di genere, una in particolare di cui si sente parlare molto nell’ultimo periodo è la triptorelina, una molecola capace di agire sul sistema endocrino e sospendere così l’arrivo della pubertà. Elargisce, in sostanza, maggior tempo per riflettere sulla propria identità di genere.
Il farmaco in questione, come evidenzia la Società Italiana di Endocrinologia (SIE), agisce bloccando la secrezione delle gonadotropine, ormoni che stimolano le gonadi e regolano quindi la secrezione degli ormoni sessuali. Inoltre, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) non ha evidenziato ad oggi casi di reazioni avverse associate all’uso della triptorelina nella popolazione pediatrica.
Passi in avanti quindi per la disforia di genere, e anche importanti. Un altro di questi arriva dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha riconosciuto a livello mondiale questa tendenza come un disturbo non mentale. “Ormai è chiaro che non è una malattia mentale e classificarla come tale può causare una enorme stigmatizzazione per le persone transgender”, spiega l’agenzia speciale dell’ONU.
Tuttavia, invece di rimuoverla del tutto dall’elenco delle patologie, è stata spostata nel capitolo delle “condizioni di salute sessuale”, in modo tale da garantire l’accesso agli adeguati trattamenti sanitari, come appunto l’utilizzo del farmaco triptorelina.