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Tumore al seno nelle donne con meno di 40 anni
Ottobre è alle porte ed è il mese del Nastro Rosa, simbolo universale della lotta contro il tumore al seno. Milioni di persone in tutto il mondo scelgono di indossare un Nastro Rosa per ricordare l’importanza della prevenzione e dimostrare la loro vicinanza alle donne che stanno affrontando questa malattia, che in Italia colpisce una donna su otto nell’arco della vita e rappresenta la neoplasia più frequente nel genere femminile.
In Italia ogni anno si effettuano oltre 50.000 nuove diagnosi, il che significa che circa 135 donne ogni giorno scoprono di avere un tumore al seno e iniziano un percorso di cura e di coraggio. Ricevere oggi una diagnosi di tumore al seno fa però meno paura rispetto a vent’anni fa, perché la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è aumentata dall’81 all’87% e la mortalità diminuisce costantemente. (Dati AIOM e AIRTUM, I numeri del cancro in Italia 2017).
Puntare al 100% di sopravvivenza è l’obiettivo di AIRC che ha scelto come simbolo della campagna un nastro rosa diverso dagli altri, incompleto, a rappresentare il suo impegno per una sfida più grande: puntare al 100% di sopravvivenza al tumore al seno.
“Grazie ai progressi della ricerca, il tumore al seno è sempre più curabile, ma il nostro obiettivo è migliorare ulteriormente la sopravvivenza. Per questo è necessario continuare a investire in ricerca con costanza e senza interruzioni. I ricercatori sono al lavoro per conoscere sempre più a fondo i meccanismi molecolari che portano allo sviluppo del tumore, per sviluppare nuovi strumenti di screening per la diagnosi precoce, per valutare l’efficacia di nuovi farmaci contro i diversi sottotipi della malattia, per offrire terapie mirate con farmaci innovativi capaci di contrastare la crescita di cellule neoplastiche e la diffusione delle metastasi”. Le parole di Federico Caligaris Cappio, Direttore Scientifico dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. “
Grazie allo sviluppo di tecniche che permettono il sequenziamento dei geni, all’inizio degli anni 2000 i ricercatori hanno infatti scoperto che il tumore al seno non è un’unica malattia, ma almeno quattro tipi diversi, perché diverse sono le alterazioni molecolari che lo caratterizzano. Questo ha consentito di mettere a punto trattamenti mirati, che permettono ai medici di curare le pazienti in modo sempre più personalizzato e con minori effetti collaterali.
Il tumore alla mammella può colpire le donne con meno di 40 anni e il nuovo obiettivo di AIRC, grazie al lavoro della dottoressa Barbara Belletti, ricercatrice del CRO di Aviano IRCSS – Dipartimento di Ricerca Traslazionale Divisione di Oncologia Molecolare, è quello di trovare uno strumento che si riveli prezioso per contrastare sempre più e sempre meglio la neoplasia.
“Il tumore al seno – ha detto Belletti – sta perdendo terreno nel confronto con la ricerca che avanza trovando strategie e soluzioni, ma che lo sta guadagnando quando parliamo di donne giovani”.
Dottoressa, combattere il tumore al seno nelle donne con meno di 40 anni è più difficile. Perché?
“Nelle giovani di solito questo tumore ha un decorso peggiore perché è più aggressivo, risponde meno alle terapie e ha una maggiore incidenza di recidive locali o metastasi a distanza. Ciò non è solo dovuto al fatto che in queste pazienti si riscontrano con maggiore frequenza i sottotipi più aggressivi, come i tumori triplici negativi, o che, già alla diagnosi, queste pazienti si presentino con tumori in stadio più avanzato. Il decorso delle pazienti giovani è comunque più aggressivo, purtroppo, soprattutto nel sottotipo luminale, a parità di stadio e grado. Finora, queste pazienti non hanno terapie personalizzate a disposizione e vengono sottoposte allo stesso tipo di trattamento delle pazienti meno giovani”.
Ecco allora l’idea dello studio, in stretta collaborazione con un gruppo di ricerca più clinico, costituito da patologi, chirurghi e oncologi: si tratta di eseguire l’analisi molecolare di campioni di tumori insorti nelle pazienti giovani e trovare le variabili che potrebbero permettere di predire in anticipo i tumori più aggressivi e la terapia più adatta”.
In cosa consiste il vostro progetto?
“E’ un progetto appena iniziato grazie al sostegno di AIRC di cinque anni. Grazie al lavoro di squadra con il gruppo di Oncologia Molecolare e con tanti colleghi clinici del CRO di Aviano ci impegneremo a individuare le alterazioni molecolari che potrebbero essere alla base della maggiore aggressività che si riscontra nel tumore al seno nella donna giovane”, spiega Belletti e aggiunge: “L’obiettivo è trovare cure più personalizzate, efficaci e meno invasive per le donne più giovani che si ammalano di cancro al seno, attraverso la caratterizzazione molecolare e la generazione di modelli preclinici appropriati con cui testare e, possibilmente, validare le nostre ipotesi”.
Una donna che cura le donne. C’è più passione e più convinzione in una donna ricercatrice quando ha come obiettivo quello di trovare uno strumento pressione per combattere una neoplasia femminile? Perché questa scelta?
“Siamo tutte amiche, parenti, sorelle, cugine, vicine di una donna che ha o ha avuto un tumore al seno. E’ indubbio che per una ricercatrice lavorare in quest’ambito abbia una valenza emotiva forte che rinnova energie e determinazione.
Non solo. Ho sempre ritenuto la ghiandola mammaria un organo estremamente affascinante da studiare, fino a quando, appena arrivata al CRO nel 2002, ho stretto una buona amicizia professionale con il chirurgo della mammella Samuele Massarut, persona curiosa e appassionata, sempre propensa ad andare oltre alla routine del quotidiano. E’ lui ad aver posto le domande cliniche alla base dei primi due progetti finanziati da AIRC sulla recidiva locale e il ruolo della radioterapia intraoperatoria”.
Si è messa in gioco in prima persona come testimonial dell’Associazione. Come vive questo ruolo?
“Con grande onore, ma anche con una certa dose di trepidazione. Spero di essere all’altezza dell’immagine di AIRC che rappresenta così tanto per i ricercatori italiani. Da sempre, AIRC è un riferimento di serietà: passare le selezioni AIRC è una conferma della qualità del proprio lavoro. Un lavoro che ha sempre presente il paziente”.
Secondo lei, qual è l’obiettivo principale di ogni ricercatore?
“E’ quello di cambiare la storia del tumore. Un obiettivo ambizioso che ogni giorno si scontra con le frustrazioni della quotidianità.
Amo molto la ricerca traslazionale, la collaborazione con i clinici, la possibilità di lavorare con campioni di materiale prelevato dalle pazienti; lo ritengo un materiale prezioso, che ha un consenso alle spalle, che ha una storia. E’ uno stimolo continuo a fare sempre meglio, in maniera più solida e seria possibile. Per poter avere un impatto sul futuro”.
Da cosa nasce la passione per il suo lavoro?
“Spesso i ricercatori ricordano di aver intuito la propria strada fin da piccoli. Ma non per tutti è così. Se guardo indietro vedo che le mie scelte sono state spesso frutto del caso. Non ho mai pianificato molto. Della decisione di intraprendere biologia ho un ricordo divertente: indecisa fino all’ultimo giorno, camminavo nella segreteria dell’Università di Bologna incerta se iscrivermi a biologia o a ingegneria. Per il dottorato ho risposto a una serie di concorsi post laurea presi dalla Gazzetta Ufficiale.
Ci comportavamo come se avessimo tutte le opportunità davanti: ho sempre pensato di avere tutte le strade di fronte a me, non mi ponevo limiti. Ora mi accorgo che tra i giovani con cui vengo in contatto non è affatto così. Hanno le stesse infinite opportunità che avevamo noi: con entusiasmo e determinazione si arriva ovunque e questo vale anche per i giovani di adesso.
Eppure oggi nelle scuole e nelle famiglie si respira un’aria diversa, i ragazzi che incontro non vivono più la sensazione di onnipotenza, di poter scegliere e fare tutto.
A vent’anni non dovresti avere dubbi o sovrastrutture pessimistiche sul futuro; è un atteggiamento che rende gli sforzi meno efficaci. Quel senso di crisi, di scarsa stabilità e poche opportunità di concorso, che ha sempre permeato la vita professionale dei ricercatori, ora si è infiltrato in altri ambiti lavorativi.
Nel mio caso le scelte si sono incanalate e ho iniziato il dottorato; è stato cruciale l’incontro con la ricercatrice Maria Graziella Persico che ha spalancato di fronte a me il mondo della ricerca. All’inizio sembrava difficile relazionarsi con lei: poteva respingerti oppure farti innamorare. Ti metteva in difficoltà, ti interrogava con gli occhi su ciò che neanche tu sapevi di volere. In questa disamina forzata di te stesso ti scoprivi più forte, determinato e consapevole delle tue scelte.
E poi naturalmente c’è stato l’incontro con Gustavo Baldassarre, mio marito e mentore, tuttora la mia spinta quotidiana personale ad andare avanti a fare ricerca con passione”.
Lei ama anche trasmettere la sua passione…
“Sì, partecipo spesso a incontri nelle scuole o nelle biblioteche, da anni partecipo ai momenti organizzati nelle sale d’attesa del mio ospedale in cui medici e ricercatori raccontano ai pazienti cosa significa fare ricerca o approfondiscono diverse tematiche. Durante le giornate della ricerca di novembre ho partecipato per AIRC a ad incontri con i ragazzi del liceo: ti danno la carica, un senso di responsabilità, ma anche un entusiasmo adrenalico”.
Nel suo lavoro può anche capitare che si verifichi un fallimento. In che modo è possibile andare avanti e crescere nonostante un insuccesso?
“Insuccesso e frustrazione fanno parte del nostro lavoro e si imparano a gestire con il tempo. E’ fondamentale non vivere ogni insuccesso come la fine dell’importanza del proprio lavoro, ma come stimolo a cambiare strada; diventare consapevoli che il fallimento è fisiologico e guardare avanti. E’ un percorso personale che avviene nel tempo, con gradualità: si impara a gestire la frustrazione, a tramutarla in senso produttivo. Ciò non toglie che gli interrogativi, in questa professione, siano all’ordine del giorno.
Sull’altro piatto della bilancia c’è la gioia incontenibile dei piccoli progressi. Il momento più intenso è quando si materializza un risultato; allora è un’esplosione di gioia pura e contagiosa, da condividere con tutti coloro con cui lavoro e vivo, in particolare con i giovani. Per loro le delusioni sono più cocenti”.
E’ mamma di due figlie, Maria Giulia, di 22 anni, che sta studiando medicina a Siena, mentre Bianca frequenta il terzo anno di liceo scientifico. In che modo riesce a conciliare lavoro e famiglia?
“Sono due ragazze davvero indipendenti. Figlie di due ricercatori trapiantati in Friuli da molti anni, siamo stati agevolati da asili, scuole a tempo pieno e dall’indipendenza precoce delle ragazze.
Quello del ricercatore è un lavoro totalizzante e impegnativo, che richiede lo sforzo continuo di ottimizzare i tempi. L’ingrediente che può far sì che tutto funzioni è l’entusiasmo. Se l’insoddisfazione si insinua in uno degli aspetti della tua vita, può far cadere tutto il palco. Certo, sei sempre di corsa e magari lacunoso, non hai tempo per te o per le amicizie, ma sei soddisfatto e questo basta. Non ho mai vissuto questi aspetti come una rinuncia, l’importante era far quadrare le 24 ore. E adesso che le ragazze sono grandi ho persino tempo, ogni mercoledì sera, di uscire prima dal laboratorio per andare a yoga!”.