Questo sito Web utilizza i cookie in modo che possiamo fornirti la migliore esperienza utente possibile. Le informazioni sui cookie sono memorizzate nel tuo browser ed eseguono funzioni come riconoscerti quando ritorni sul nostro sito Web e aiutare il nostro team a capire quali sezioni del sito Web trovi più interessanti e utili.
Umanizzare la medicina, l’appello del Papa al Gruppo Villa Maria
Umanizzare la medicina ricordando ai pazienti di essere persone e non numeri. È questo, in sintesi, il messaggio lanciato da papa Francesco dalla Sala Clementina in Vaticano e affidato ai rappresentanti del Gruppo Villa Maria, tra medici, infermieri, personale amministrativo e dirigenti, da quarant’anni attivo nel settore della sanità e al servizio della salute delle persone. Il Pontefice, dando il benvenuto a tutti i membri del Gruppo, ha riflettuto sull’evoluzione tecnologica e gli stessi mutamenti di natura sociale, economica e politica che hanno cambiato il tessuto su cui poggia la vita degli ospedali e delle strutture sanitarie. Una crescita che ha posto le base a una nuova cultura, specialmente in riferimento alla preparazione tecnica e morale degli operatori sanitari a tutti i livelli.
“In questa prospettiva – ha proseguito Bergoglio – è importante quanto ha compiuto finora il Gruppo Villa Maria per andare incontro alle esigenze dei pazienti e delle loro famiglie, costretti a volte a migrare verso centri specializzati lontani dal proprio territorio. L’impegno ad allargare il raggio di azione con l’acquisizione o la creazione di nuove strutture e l’ampliamento delle infrastrutture, denota la volontà di assicurare le attrezzature e il conforto necessari per la degenza dei malati e per la loro guarigione”. Non ci sono dubbi per il Papa, e non è del resto la prima volta che si espone in questi termini: è essenziale che i luoghi di cura diventino sempre più case di accoglienza e di conforto, dove il malato trovi amicizia, comprensione, gentilezza e carità. Luoghi di umanità. “Il malato – ha infatti ribadito il Pontefice argentino – non è un numero: è una persona che ha bisogno di umanità. A tale proposito, è necessario stimolare la collaborazione di tutti, per venire incontro alle esigenze dei malati con spirito di servizio e atteggiamento di generosità e di sensibilità. Questo non è facile, perché il malato è ammalato, e perde la pazienza e tante volte è “fuori di sé”. Non è facile, ma si deve fare. Per raggiungere tali obiettivi, occorre non lasciarsi assorbire dai “sistemi” che mirano solo alla componente economico-finanziaria, ma attuare uno stile di prossimità alla persona, per poterla assistere con calore umano di fronte alle ansietà che la investono nei momenti più critici della malattia. In questo modo si contribuisce concretamente ad umanizzare la medicina e la realtà ospedaliera e sanitaria. Ho detto una parola, prossimità: Non dobbiamo dimenticarla. Anche la prossimità – permettiamoci di dire – è il metodo che ha usato Dio per salvarci. Già al popolo ebreo diceva: “Dimmi tu, quale popolo ha i suoi dei così vicini, così prossimi come tu hai me?”. Il Dio della prossimità si è fatto prossimo in Gesù Cristo: uno di noi. La prossimità è la chiave dell’umanità e del cristianesimo”.
Poi, l’appello ai medici e agli operatori sociosanitari cattolici. “Quanti si riconoscono nella fede cristiana sono chiamati a svolgere il loro servizio nello spirito delle parole di Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Qui si trova il fondamento evangelico del servizio al prossimo. Così i malati e i sofferenti diventano per chi ha fede segni viventi della presenza di Cristo, il Figlio di Dio, venuto per sanare e guarire, assumendo su di sé la nostra fragilità, la nostra debolezza. Prendersi cura del fratello che soffre, significherà, in questo senso, fare posto al Signore. Dai luoghi di cura e di dolore viene anche un messaggio per la vita di tutti; una grande lezione che nessun’altra cattedra può imp