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I 10 miti sulla mente da sfatare (terza parte)

11 Dicembre 2019

È vero che uomini e donne hanno cervelli diversi? O che bastano 10.000 ore di pratica per diventare esperti in qualcosa? O ancora che alcune persone non possono fare a meno di tradire perché dipendenti dal sesso? È giunto il momento di sfatare i 10 miti più famosi sul comportamento umano e la mente.

Eccoci alla terza parte del viaggio nel comportamento umano. Qui e qui trovate la prima e la seconda parte.

  1. ESISTE IL GENE DELLA MALATTIA MENTALE?

Non esiste un singolo gene per la depressione, la schizofrenia o qualsiasi altro disturbo psichiatrico.

La probabilità che si verifichino ansia, un episodio di depressione maggiore o una diagnosi dello spettro autistico è indubbiamente in certa parte dettata da una predisposizione genetica. Per esempio, il rischio di soffrire di depressione è più alto in individui con un  fratello o un genitore con depressione, e lo stesso vale per la schizofrenia e praticamente per tutte le condizioni psichiatriche. Sulla scia di questo dato di fatto, dagli inizi degli anni ’90 i ricercatori in psichiatria si sono messi alla ricerca di geni specifici che potessero predire il rischio di soffrire di un disturbo mentale. Ma gli scienziati non sono riusciti a fornire prove affidabili che qualsiasi singola variante genetica comune sia decisiva nello spiegare l´insorgenza di disturbi mentali.

Oggi, i genetisti sanno che non esiste un singolo gene (né un piccolo numero di geni)  che predispone le persone verso disturbi mentali particolari, ma che spesso i disturbi mentali sono altamente poligenici e che i geni interagiscono con variabili ambientali nell´emergenza di una psicopatologia. Possiamo immaginare ai geni come alla benzina e all´ambiente come una fiamma. Così come in assenza di una fiamma la benzina non brucia, così in assenza di determinati fattori ambientali i geni restano silenti e così il disturbo mentale non si manifesta.

 

  1. LE PERSONE ELABORANO IL LUTTO ALLO STESSO MODO?

 

Le persone non si affrontano la perdita di una persona cara in modo stabilito e prevedibile.

Negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione sono le 5 fasi del lutto che normalmente accompagnano questa esperienza, secondo una teoria psicologica. Così, le persone, di fronte ad un lutto, dapprima negherebbero la scomparsa del compianto, si arrabbierebbero, solo successivamente affonderebbero nella tristezza e, infine, arriverebbero ad accettare la perdita. Le cose non stanno però esattamente così. E ciascuno ha il proprio stile per far fronte alla perdita di una persona amata.

La stessa psichiatra che aveva elaborato tale teoria, Elisabeth Kübler-Ross, si era resa conto successivamente di come non tutti sperimentassero tutte le fasi né che le fasi stesse  seguissero tale ordine. Non c’è dubbio che le persone in lutto si arrabbiano e si deprimono per una perdita, e  spesso fanno fatica a credere che sia reale. Ma la verità è che ciascuna persona elabora il dolore in maniera diversa e forse unica. Anche perché il dolore è sempre un´esperienza privata che difficilmente si presta a sterili classificazioni.

 

  1. LE PRIME INTERAZIONI CON I GENITORI DETERMINANO COME CI RELAZIONIAMO CON GLI ALTRI DA ADULTI?

Mentre molte persone hanno pochi problemi a trovare un partner, fidarsi e fare affidamento su di lui o lei come base di supporto, altre persone hanno una forte avversione a impegnarsi in una relazione e faticano a fidarsi del loro partner. Gli psicologi usano il termine “stile di attaccamento” per descrivere come gli individui differiscono nei gradi di evitamento o ansia che mostrano nelle loro relazioni e nel grado di sicurezza o insicurezza circa i loro legami.

Mentre alcuni bambini mostrano comportamenti marcatamente ansiosi o evitanti dopo essere stati separati dai genitori, altri invece tendono a giocare tranquillamente anche in assenza del genitore. Ma se questa tendenza venga poi mantenuta o meno anche in età adulta è tema di acceso dibattito tra gli esperti.

La continuità tra le caratteristiche di attaccamento nell’infanzia e nell’età adulta varia da individuo a individuo e la negligenza o l’abuso precoce possono, naturalmente, causare danni a lungo termine. Ma, dati alla mano, le correlazioni tra misure precoci e successive relative all’attaccamento sono davvero modeste.

Le prime relazioni potrebbero sì avere un retaggio sullo sviluppo, ma questo sembra dipendere in larga parte da come la vita va avanti. Immaginiamo che un bambino insicuro incontri insegnanti pazienti e attenti nei suoi confronti. Sicuramente queste esperienze positive potranno rimodellare il modo in cui il bambino percepisce, pensa e risponde all´ambiente. Stesso discorso vale per quelle persone che, pur avendo avuto genitori pessimi, trovano, in età adulta, un partner amorevole e affidabile.

Spesso invece il motivo per cui una persona si percepisca insicura da adulta sembra essere dovuto a qualcosa nella sua storia recente, come ad esempio sperimentare una rottura devastante, come la fine di una relazione o un licenziamento improvviso. Infine, un’esperienza non ottimale con un genitore potrebbe influire sul legame genitore-figlio senza tuttavia andare ad investire altre relazioni.

 

Tags: comportamento, famiglia, mente, psicologia
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Giuseppe Iannone
Giuseppe Iannone
Psicologo clinico e neuropsicologo, ha conseguito la Laurea in Neuroscienze Cliniche e Cognitive con specializzazione in Psicopatologia presso l’Università di Maastricht (Paesi Bassi). È iscritto all'Albo dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia ed è sono autore di diverse pubblicazioni scientifiche. Possiede una seconda laurea in Pedagogia della Lingua e Cultura Italiana, conseguita a pieni voti presso l’Università per Stranieri di Siena e si occupa di consulenza linguistica e culturale in diverse aziende. Infine, è istruttore di tecniche di respirazione, di rilassamento, di training autogeno, di massaggio russo e di autodifesa presso la A.S.D. Systema Milano.

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