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Nutrizione, stile di vita, benessere: sono solo parole?
Diciamolo francamente: siamo stufi di ascoltarle, siamo stufi di leggerle, siamo stufi di essere sballottati tra un ordine e l’altro della scuderia salutistica globale.
Eppure in fondo, siamo anche stufi di subire le conseguenze del mancato rispetto che ogni giorno, volente o nolente – e spesso in modo dolente – portiamo a queste parole.
E’ uno di quei casi in cui si ha veramente la sensazione di non essere sufficientemente padroni della propria vita e che entrare o meno a far parte di certe statistiche sanitarie sia solo questione di fortuna. Identifichiamo volentieri la moderna dea bendata con la genetica, in fondo è il famoso fattore C, ma abbiamo dovuto imparare a denti stretti che l’influenza dell’ambiente sulla nostra salute è molte volte determinante, a partire dall’abitudine di fumare, bere o mangiare irresponsabilmente, fino al guidare senza le cinture allacciate e così via.
Il problema nasce qui: cosa ci hanno detto e cosa abbiamo veramente capito riguardo al nostro ruolo nel mantenimento dello stato di salute. Come si può essere responsabili di se stessi se si è bombardati continuamente da informazioni contrastanti su cui non si ha nessun controllo?
Gli onnipresenti interessi politico-economici (si pensi che l’obesità viene riconosciuta negli USA come patologia a se stante e non come fattore di rischio solo nel 2013, nonostante fosse stata segnalata come tale da decenni) e l’incuria dei divulgatori contribuiscono a complicare enormemente il quadro, e la nostra vigilanza deve essere continua. Ma applicare tout court la dietrologia anche alla scienza è un atteggiamento che possiamo permetterci?
La storia del rapporto tra nutrizione e salute si basa su un serie di dati che derivano da studi scientifici che necessariamente esprimono conclusioni relative al periodo e alle metodologie con cui sono stati svolti.
Gli epidemiologi devono essere molto bravi per prendere in considerazione tutti i possibili aspetti che possono influire su una situazione. Prendiamo ad esempio uno degli studi “storici”: il pioneristico “Seven Countries Study” condotto da Ancel Keys negli anni tra il 1958 e il 1970 in sette diversi paesi, il tormentone – con rispetto parlando – citato da tutti quando si parla delle innegabili virtù della Dieta Mediterranea.
In questo studio l’alimentazione di circa 1000 uomini fu seguita per un periodo di 10 anni, per correlarla all’incidenza delle malattie coronariche, prima causa di morte al mondo. Ne emerse un quadro in cui nei paesi dove si seguiva una dieta più simile a quella dell’isola di Creta, si soffriva meno di tali malattie. Le differenze tra la Finlandia orientale e gli abitanti dei villaggi giapponesi era vistosa. Sul banco degli imputati salirono innanzitutto i grassi Saturi e li rimasero per diversi anni.
Altri studi che in quel periodo esaminavano i fattori dietetici potenzialmente responsabili dell’incidenza dei tumori nei vari paesi del mondo, rilevarono un aumento analogo nei paesi occidentali rispetto ai paesi in via di sviluppo o alle società asiatiche tradizionali.
Ma come fa notare l’epidemiologo e nutrizionista dell’Università di Harvard Walter Willett (1), riconosciuto come uno dei più influenti protagonisti della storia della nutrizione, l’enorme disparità nei tassi di rischio tra i vari paesi avrebbe potuto essere spiegata anche con le molte differenze esistenti tra le varie realtà geografiche e culturali (attività fisica, altri aspetti della dieta).
Ma all’epoca queste non vennero considerate adeguatamente, la frenesia di correre alle conclusioni spinse a presentare al pubblico dei dati deboli e non conclusivi come il “Vangelo delle raccomandazioni dietetiche”.
Del resto era un’epoca nuova anche per la scienza della nutrizione. Per decenni le uova sono state demonizzate per il loro contenuto di colesterolo senza che nessuno studio avesse mai realmente dimostrato il peso effettivo di questo fattore dietetico. Per anni abbiamo assistito alla diffusione di Piramidi alimentari simili a quella americana iniziale del 1992: in cima lo “spauracchio” dei grassi di qualunque tipo (“consumare con cautela”), alla base l’ampia fascia dei carboidrati concessi in tutte le loro manifestazioni e declinazioni. In mezzo il gruppo eterogeneo di carni rosse, pesce, pollame, legumi e frutta secca senza troppe distinzioni. Grande enfasi sul latte e i suoi derivati, anche se a ben guardare si vide che in molti paesi del mondo che non ne facevano uso, non fioccavano affatto le fratture. L’analisi degli studi pubblicati fino al 2006 ha mostrato invece che un consumo di latte eccessivo può portare un maggior rischio di cancro alla prostata e lo stesso si sospetta per i tumori dell’ovaio. Di contro si è riscontrato un minor rischio di tumori all’intestino. Con questo panorama variegato e contraddittorio non c’è da meravigliarsi che i ricercatori del Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (WCRF) (2), abbiano preferito non formulare alcuna raccomandazione sul latte.
Mentre si consumava lo scollamento tra prescrizioni (si ai carboidrati, no ai grassi) e statistiche (aumento di obesità, diabete e malattie cardiovascolari), la qualità degli studi migliorava e anche grazie a studiosi più critici e autocritici come Willett si arrivò a sfatare il mito dei carboidrati e a ridimensionare l’importanza dei grassi Saturi, andando a differenziare meglio le responsabilità nell’incidenza delle malattie. Molti studi avevano mostrato che il miglior predittore delle malattie cardiovascolari era il rapporto tra le due frazioni del colesterolo LDL (quella “cattiva”) e HDL (quella “buona”) e che l’uso estensivo nella nostra alimentazione di quelli che vengono definiti grassi Trans lo aumentava per lo meno del doppio rispetto a quanto facevano i grassi Saturi non Trans. (I Trans sono grassi che spesso derivano dai processi industriali di idrogenazione e si trovano nelle margarine, nelle fritture, nelle merendine, negli alimenti da fast food).
Come se non bastasse, altri studi misero in rilievo che sostituendo un 10% delle calorie provenienti dai grassi Saturi di una dieta, con olio di oliva, o con carboidrati complessi (pane, pasta…) come raccomandato all’epoca dall’American Heart Association, nel secondo caso si otteneva un effetto peggiore: il colesterolo buono diminuiva e i trigliceridi aumentavano. Era già stato dimostrato che questo schema prediceva un aumento delle malattie cardiovascolari. Insomma mettere i carboidrati alla base della propria alimentazione non si rivelò essere una buona idea.
Ma la nutrizione è qualcosa di semplice solo in apparenza – continua Willet – e per studiare l’influenza di tutti i fattori che possono influire su una dieta nel loro complesso occorrerebbero studi randomizzati e a lungo termine.
Per uno studio ideale occorrerebbe nutrire un bambino fin dalla più tenera età con ciò che si intende studiare ed osservare gli effetti nel corso del tempo, ma naturalmente ciò non sarebbe molto etico.
Si possono comunque effettuare dei cosiddetti studi osservazionali a lungo termine che come fu il caso del “Nurse’s Health Study” si dimostrano estremamente preziosi. In questo studio, iniziato per altri motivi, dal 1980 sono stati raccolti i dati dietetici di 100.000 infermiere americane, il 90% delle quali sta ancora partecipando dopo 40 anni (!). Da queste informazioni sono stati ricavati dati utili per studiare non solo il rischio cardiovascolare ma anche quello tumorale e di malattie neurodegenerative, Parkinson, Alzheimer. Delle 1.000 donne di questo studio che sono state ospedalizzate o sono morte per un attacco di cuore 14 anni dopo, si sono studiate tutte le possibili correlazioni dietetiche, confermando che i Trans erano davvero i grassi peggiori.
L’80% dell’aumento del rischio di patologie cardiovascolari era imputabile ad un minuscolo 2% delle calorie provenienti da questi grassi. I Saturi aumentavano questo rischio in misura decisamente minore, seguiti dai Monoinsaturi (contenuti nell’olio di oliva ad esempio) e dai Polinsaturi (contenuti in altri oli vegetali). I Saturi non hanno mostrato, in questo e in altri studi, di essere fortemente correlati neanche con l’aumento del cancro al seno. (Per inciso si scoprì invece che il tipo di dieta seguito dalle ragazze in età adolescenziale era molto più rilevante della dieta seguita successivamente, rispetto al rischio oncologico). Oltre a definire meglio grassi “buoni e cattivi”, si focalizzò l’attenzione sul tipo di proteine consumate (vegetali, animali) quantificando il rischio di cancro o cardiovascolare che era attribuibile al consumo di carne rossa. E ci si accorse che l’osteoporosi era influenzata dalla quantità delle proteine nella dieta.
Tenendo conto dei risultati di studi minori e cercando di ripeterli con studi sempre più rigorosi e a lungo termine si è creato nel tempo un corpus di conoscenze più solide su cui basare delle raccomandazioni sensate e praticabili che permettano alle persone di prendere in mano il proprio stato di salute.
Sulla base del follow up del Nurse’s Study è stato calcolato che con un semplice pacchetto di misure non radicali come mantenere un peso accettabile, non fumare, consumare una dieta appropriata (che includesse alimenti a basso indice glicemico, fibre, pesce due volte a settimana, frutta e verdura, grassi salutari come gli Omega3, un basso tenore di grassi Trans) sarebbe stato possibile abbattere il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete in quella popolazione rispettivamente dell’ 82% e del 92%.
L’epidemia di “diabesità” che ha colpito trasversalmente nel mondo (tanto da essere rinominata “globesity”) seppur non arginata sta cominciando debolmente a rallentare, anche se in modo poco democratico. Tra le classi più deboli economicamente e le regioni meno ricche essa colpisce con più durezza. Ma parole chiave come fibre, indice glicemico, grassi Saturi e Insaturi, carboidrati complessi, proteine vegetali, bevande zuccherate, antiossidanti, infiammazione, possono essere gli strumenti per affrancarci da uno stato invalidante che sta dimostrando di sconfinare pericolosamente verso nuovi territori.
Si pensi ai collegamenti che stanno emergendo da varie ricerche, tra gli stati di insulino-resistenza e i danni a quelle regioni del cervello che hanno a che fare con la memoria e la personalità (3). Già dal 2005 per l’Alzheimer fu proposta la dicitura di Diabete di tipo 3, ed è noto che le persone affette da Diabete hanno un rischio raddoppiato di sviluppare Alzheimer. E anche per l’obesità il rischio di una riduzione delle funzioni cognitive sembra aumentato (4,5).
In nutrizione ma non solo, saper combinare le conoscenze per avere una visione d’insieme non è un lavoro facile o immediato, arrivare a delle evidenze incontrovertibili abbiamo visto è quasi impossibile, e nella comunità scientifica ci può essere molto dibattito su quali aspetti pesino più di altri. Ma è un processo di avvicinamento continuo ad un più alto grado di certezza su quali siano i fattori che veramente contano per la nostra salute.
Perciò è lecito dubitare di coloro che sostengono “soluzioni rapide e definitive”, ma una buona scienza deve passare al vaglio anche quelle, con trasparenza.
Il processo è continuo e si svolge al di fuori dei vari “Porta a Porta”. Noi dobbiamo solo resistere alla tentazione dell’incultura e della rassegnazione, aumentando la nostra consapevolezza di ciò che va bene o non va bene per noi. In questa atmosfera di dubbio costante, è meglio scegliere le piccole dosi e ruotare gli alimenti in modo da impedire accumuli di sostanze che un giorno potrebbero rivelarsi tossiche. Tanto, anche senza Wiki-leaks, prima o poi si sa tutto.