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Selfiemania: quando la vanità diventa patologia

18 Novembre 2016

La tecnologia digitale è in grado di fare qualunque cosa in tempo reale. Basta un click e siamo connessi con il resto del mondo e condividere opinioni, immagini e sensazioni. Lo smartphone è ormai diventato la nostra “seconda pelle”, uno strumento del quale è impossibile fare a meno. Il selfie, ovvero un autoscatto realizzato con una fotocamera digitale, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso se stessi e condiviso sui social network, fa parte di questo sistema.

Sulla pagina pubblica di Facebook della dottoressa Marinella Cozzolino, psicoterapeuta e sessuologa è stata recentemente pubblicata una riflessione che ha suscitato il nostro interesse. Il titolo è “Donne, selfie e vanità” e di questo articolo, prima di rivolgere qualche domanda all’esperta per approfondire il tema, Mutua Mba intende riportare il testo per intero:

 

“Sono mesi, forse anni, che mi interrogo sui selfie.

Sono antica, ancora ferma all’idea della macchinetta fotografica che porti con te quando hai qualcosa di particolarmente bello da fotografare: quando vai in vacanza, ad esempio, o se c’è un compleanno. Un modo, il più semplice ed immediato, per bloccare i ricordi in un’immagine. Per questo mi risultava davvero difficile comprendere le motivazioni che spingevano e spingono tante donne (soprattutto) ad autofotografarsi e a rendere pubblici e condividere questi scatti che dovrebbero rimanere privatissimi…

L’ ho considerata per molto tempo una cosa parecchio ridicola e molto infantile.

Ho cercato di darmi spiegazioni e motivazioni, mentre, intanto, quella del selfie, diveniva un’abitudine molto condivisa se non una vera e propria mania. Ho scomodato la psicologia e gli studi sul narcisismo e l’autostima senza mai trovare una risposta che fosse esauriente e soddisfacente per tutti i miei dubbi. Alla fine, come spesso accade, arriva inaspettatamente la folgorazione. La risposta è la più semplice in assoluto, senza bisogno di scomodare grandi menti: VANITA’.

Vanità e bisogno di piacere, di essere approvati. I social in questo aiutano ed alimentano.

La vanità non è un peccato, è un bisogno come mangiare e bere, il bisogno di essere riconosciuti. Lo abbiamo tutti, anche quelli che non si fanno autoscatti. Ognuno, a suo modo e con i mezzi che ha a disposizione, cerca di saziare il suo bisogno di approvazione. E non è un fatto fisico. Molte foto non ritraggono donne bellissime, ma donne che si piacciono e vogliono che questo piacere sia condiviso.

Il mondo non è cambiato per via della tecnologia, dei social e dei selfie, è cambiato il livello di consapevolezza della gente ed è cambiato il senso della vergogna e del pudore. Anni fa molte persone, molte donne, avrebbero avuto difficoltà ad ammettere il fatto che amano piacere. Oggi la chirurgia estetica e i selfie stessi ci dicono che si tratta di un problema che non ha più nessuno e fanno bene. Non c’è nulla di male a voler piacere, a voler essere ammirati. Non è cosa infantile, è cosa umana. La vanità non è un peccato, ma un modo di vivere il piacere. E’ una presa di coscienza, ma anche un atto di umiltà, un’ammissione”.

 

Dottoressa Cozzolino, in questa “lettera aperta” parla di vanità come risposta all’uso eccessivo che si fa degli strumenti digitali, in particolar modo del fenomeno dei selfie, perché?

“L’uso eccessivo degli strumenti digitali non alimenta la vanità, la ‘legalizza’. Le toglie l’aspetto imbarazzante, la rende libera da pudore e vergogna. La tecnologia ha diffuso la vanità, le ha dato voce”.

Per tanto tempo ha considerato il selfie una “cosa ridicola e molto infantile” che invece ha preso piede tanto da diventare una vera e propria mania. Cosa spinge molte persone a fare un autoscatto e condividerlo sui social network?

“La parte femminile che è in ognuno di noi (anche negli uomini) è vanitosa, lo è sempre stata. Non esagero se dico che la vanità non espressa rischia di farci ammalare per assenza di risposte ad una inspiegabile insoddisfazione: cosa mi manca? Cosa cerco che non ho e non riesco a trovare? C’è una sola risposta: l’approvazione altrui, il riconoscimento della femminilità o della virilità. Piacere piace a tutti e non è solo un desiderio, ma un bisogno”.

 Quando il selfie diventa “ossessivo” è una patologia?

“Tutto ciò che diventa ossessivo rischia di diventare patologico. Ossessiva è qualsiasi cosa diventi un pensiero fisso e ripetitivo. Tutte le cose che ci piacciono e ci interessano all’inizio diventano una piccola ossessione che, però, nel giro di qualche giorno passa”.

 

Qual è il confine tra il concetto di vanità “sano” e il fatto che non si riesca a far a meno del selfie per compiacere e compiacersi?

“E’ pericoloso solo se il comportamento ossessivo diviene invalidante, vale a dire quando si evitano alcune normali faccende e relazioni del quotidiano per mettere in atto la propria ossessione”.

 

Alla luce di quanto scritto, vorrebbe aggiungere altro? Quali sono i suoi consigli per evitare che diventi una dipendenza dannosa per la salute?

“La tendenza a fare selfie, come accennato, è un modo per liberarsi dall’ansia di non riuscire ad ammettere che sì, ci piace piacere, ci piace sedurre ed essere corteggiati. Non c’è nulla di male e non fa male. Piuttosto fa male la compensazione, la tendenza cioè a soddisfare questo bisogno con un suo surrogato”.

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